lunedì 9 giugno 2008

"Gomorra" di Matteo Garrone


La forza di un tema. E' questo che fa urlare a molti appassionati di cinema al capolavoro, una volta visto "Gomorra". Perchè al di là della qualità reale del film, oltre al regista, oltre ai personaggi (che mai come in questo caso bisognerebbe chiamare "esistenti"), al di là di tutto questo c'è la concezione che la storia parli di qualcosa di dannatamente reale e vero come la Camorra. E un film che tratta un tema reale e tangibile, violento e maledetto come la Camorra (o come la guerra, la shoah, ecc...) specialmente in maniera cruda e quasi documentaristica, per forza di cose verrà eletto dalle masse a film capolavoro.

L'importanza di un libro come "Gomorra" e dell'esistenza di un uomo come Roberto Saviano sfido chiunque a definire superflua. Ma questo è un blog di cinema e non sono qui per dare il mio personale (quanto inutile) giudizio su un libro, su un uomo o sulla Camorra. Sono qui per dire la mia sul film di Matteo Garrone al di là del tema trattato. E penso che in generale bisogna tenere conto della quallità artistica e tecnica di un'opera oltre che soggetto trattato, che da solo riuscirebbe a commuovere, scioccare, imbestialire chiunque.

Può sembrare da questa premessa che il film non mi sia piaciuto. Sbagliato. Il film mi è piaciuto e tanto. E indubbiamente merita il successo che sta avendo. Ma, personalmente, guardandolo da un punto di vista squisitamente cinematografico, non urlo di certo al capolavoro.

Perchè "Gomorra" finesce per essere, ne più ne meno di un film sulla malavita. Un film-verità su criminali senza scrupoli desiderosi di salire nella scala gerarchica camorristica e mantenere (o conquistare) il potere della propria zona. Sarà che il cinema si è ormai da tempo impossessato di dramma e violenza, di morte e sangue, facendoli diventare, per quanto reali, elementi da grande schermo. Fatto sta che omicidi a sangue freddo e cerimonie di iniziazione a suon di colpi di Beretta fanno parte di troppi film sulla criminalità organizzata (vera o di finzione) per innescare nello spettatore quello schock dovuto alla visione di fatti sconcertanti e reali. La mente corre subito a "City of God" film che sotto molti punti di vista si avvicina a "Gomorra". Anche lì il teatro della vicenda è un luogo ristretto, popolato da famiglie comuni e clan malavitosi che convivono tra loro tra traffici di droga e morti sulle strade. Anche lì la malavita scivola nelle vite di uomini, donne e bambini, costretti a scegliere da che parte stare e finendo per voler diventare poi come "quelli lì" quelli che contano e magari sperare anche di essere meglio di "quelli lì".

Quello che ho notato in "Gomorra" è soprattutto una serie di clichè, di elementi classici di questo genere di cinema. Dai ragazzi che credono di poter prendere in mano il potere, di essere superiori a quei capi che deridono e sfottono e che solo facendo di testa loro potranno arrivare e che chiaramente finiscono ammazzati. Dai ragazzini che cercano di imitare i grandi, vestendosi come loro e cominciando a lavorare per loro. O come la scena del matrimonio che avviene in contemporanea e a pochi passi dai traffici che "gli altri" abitanti del quartiere stanno compiendo al piano di sopra (il male e il bene che convivono insieme). E poi la camera a mano, l'assenza di montaggio, la musica intradiegetica, il dialetto tutti elementi di un certo cinema-verità che cercano di ricordarci che quello che stiamo vedendo è tutto vero.

Matteo Garrone non mi aveva entusiasmato in precedenza, ma devo ricredermi dopo "Gomorra". Garrone sa come muovere la macchina da presa e spesso e volentieri ci regala alcune sequenze splendide da vero cinema.

"Gomorra" sfrutta l'onda del successo del libro e del tema trattato che, come ho già detto, di per sè fa breccia nell'animo dello spettatore. La scelta degli episodi, a detta dello stesso Garrone, è avvenuto puramente per motivi cinematografici più che per i contenuti. Forse uscire da Scampia, mostrare i legami più stretti tra Camorra e Stato, tra Camorra e la vita quotidiana degli italiani avrebbe dato al film maggiore peso e importanza. Così, ho l'impressione che finisca per essere una poco originale opera sulla malavita, come se ne sono viste tante.

domenica 1 giugno 2008

"Il divo" di Paolo Sorrentino


Paolo Sorrentino è un fautore dell'estetica cinematografica, uno che fa del suo stile, unico e originale, uno dei pilastri portanti delle sue opere. Un regista che sà usare la macchina da presa, sà come muoverla al servizio della su storia e dei suoi personaggi. Un autore che riesce a raccontare l'Italia e gli italiani, senza mai parlare direttamente dell'Italia e degli italiani.

Anche "Il divo", film che tratta la vita di Giulio Andreotti dal suo settimo mandato come Presidente del Consiglio fino all'inizio del processo di Palermo, è un film sul "teatrino della politica" come lo ha definito lo stesso Sorrentino, ma che in realtà non parla direttamente di politica.

"Se non puoi parlare bene di una persona: non parlarne" dice la citazione iniziale. E come è possibile parlar bene di un personaggio come Andreotti? Come raccontare la sua vita senza dare giudizi, senza cadere nella propaganda politica? Sorrentino ci riesce. E per farlo trasforma Andreotti in un personaggio cinematografico. Non nel senso che lo reinventa, cancellandogli i tratti distintivi reali, ma bensì estrapolandolo dal contesto politico-televisivo nel quale siamo abituati a vederlo, e sottolineando quei tratti distintivi, osservandolo con gli occhi di un narratore, di un regista.

Quello che penso affascini Sorrentino dell'attuale Senatore a vita non sia solo la sua storia politica e i misteri che ad essa sono legati, bensì Andreotti come personaggio di un film. L'aspetto fisico, la camminata, il modo di muoversi e parlare, la sua intelligenza e il senso dell'umorismo, così tagliente e raffinato, la totale assenza di espressioni ed esternazione dei sentimenti, il suo amore incondizionato per la moglie, il tutto unito a quelle 7 presidenze del Consiglio, i 22 incarichi da Ministro, i sospetti legami con la mafia e la partecipazione diretta, anche qui mai dimostrata, a numerosi omicidi negli anni '70 e '80 che contrasterebbero fortemente con la sua pacatezza e tranquillità esteriore. Tutti elementi che farebbero la fortuna di un personaggio di fantasia, se non fosse che quel personaggio esiste già ed è assolutamente reale.

Sorrentino inquadra Andreotti senza mai inoltrarsi nei meandri della politica, senza raccontare aspetti della sua vita pubblica che già non si conoscono, ma guardandolo come un personaggio grottesco, quasi buffo, che nella sua involontaria simpatia, mette i brividi. Certo, il film non propone una immagine positiva di Andreotti, non ne fa una vittima innocente della Giustizia, ma nello stesso tempo non lo accusa direttamente. Non lo vediamo mai ordinare un omicidio, e ad eccezione dell'incontro con Riina, non sono molti i suoi colloqui incriminanti. Questo non perchè Sorrentino ritenga Andreotti innocente o perchè abbia timore ad attaccarlo, ma perchè vuole che sia lo spettatore a giudicare e perchè vuole dare al Divo una impronta grottesca.

E' proprio il grottesco la chiave di lettura del film. Già dalle prime scene, che vedono il protagonista prima con il volto coperto di aghi nell'intento di cancellare l'emicrania che lo perseguita, e poi sulla cyclette mentre pedala nella penombra, o ancora la presentazione della "corrente andreottiana" con quella camminata verso la mdp in rallenty che ricorda quella delle iene terantiniane, si capisce la volontà del regista di "Le conseguenze dell'amore" di non realizzare la solita banale fiction su un un frammento di Storia d'Italia, ma creare puro Cinema trasformando un uomo politico in un personaggio. E' la consapevolezza che quel personaggio è reale a creare la morale dell'opera.

Il difetto del film, forse sta nella durata, quasi due ore. Questo perchè, l'intento di raccontare il "personaggio-Andreotti" comporta la mancanza di una storia vera e propria, di una trama con un obiettivo finale, con uno scopo da raggiungere per il protagonista. Questo va benissimo, ma inserito in 110 minuti di film, finisce per stancare un po' lo spettatore che, incantato dal talento di Sorrentino finisce per domandarsi quando si entrerà nel vivo della storia. Ma non c'è una storia, una trama, non c'è neanche un finale in effetti.
La trama del film è Andreotti.

Due parole per Toni Servillo che continua la sua collaborazione con il regista napoletano e che come sempre lascia il segno con una interpretazione superlativa, nascondendosi dietro il personaggio e recitando con il corpo, (attraverso gesti controllati e mimiche da attore comico) e con la voce (controllata e cadenzata ma capace di esplosioni staordinarie come nella scena della preghiera-confessione) in un modo sublime. Attualmente il migliore atore italiano e non solo.