lunedì 31 marzo 2008

"Nodo alla gola" di Alfred Hitchcock


Per fortuna esistono i DVD. Altrimenti, se dovessimo continuare a vedere i film usufruendo solo dell'audio italiano, rischieremmo di perdere molto della visione originale del regista o dello sceneggiatore.

Un esempio viene da "Nodo alla gola" del '48, uno dei film più sperimentali dal punto di vista tecnico di Hitchcock. La sperimentazione sta nel fatto che il film è girato in tempo reale. Ovvero la durata della storia e quella del film coincidono. E per fare questo, il maestro ha girato utilizzando lunghi pianisequenza, in una concezione della recitazione e della messa in scena che si avvicina molto a quella del teatro. Non è un film girato con un unica inquadratura, come molti sostengono. Gli stacchi dovuti al cambio di bobina e alcuni cambi di angolazione non lo rendono tale.

Ma quello che mi interessa sottolineare non è tanto questo metodo di ripresa e la relativa rinuncia del regista al suo tanto amato montaggio, bensì le differenze che intercorrono tra la versione originale e quella italiana del film.

Il doppiaggio nostrano infatti è per la maggior parte falsato rispetto a quello reale. Molti dialoghi sono stati completamente stravolti, cambiandone completamente il senso. In effetti la prima volta che vidi il film ci furono alcune cose che non mi tornavano e alcune battute sembravano abbastanza inutili o addirittura contrastanti con i personaggi o la storia. Dopo aver rivisto il film in dvd ho capito a che cosa erano dovute le mie perplessità.

Se guardate "Nodo alla gola" con i sottotitoli italiani (che per fortuna si basano sul parlato originale) la storia assumerà un altro significato.
Su tutte la motivazione che spinge i due protagonisti a uccidere David. Nella versione italiana sembra che tutto sia scoppiato a seguito di una litigata sfociata poi "accidentalmente" in un omicidio per strangolamento. Già così le cose non tornano. Dato che sembra poco plausibile che i due abbiano ucciso David senza premeditazione, visto che l'omicidio è avvenuto per strangolamento (utilizzando una corda), mentre la stanza aveva le tende tirate e i due indossavano dei guanti. Il movente in realtà c'è ed è quello che sostiene tutto il film. Brandon e Phillip hanno ucciso con premeditazione al fine di mettere in pratica le teorie del prof. Cadell. I due hanno ucciso per sentirsi vivi e per assaporare il gusto dell'omicidio, sentendosi esseri superiori e quindi in diritto di poter uccidere chi ritengono insignificante.

In italiano tutto questo scompare e tutti i dialoghi che si concentrano su questo tema vengono cambiati.
Phillip aveva chiesto apposta le chiavi alla governante che era stata intenzionalmente mandata in giro per la città, in modo da avere casa libera e senza rischiare che lei tornasse a sorpresa.
Lo champagne è stato preparato da Brandon proprio per essere stappato ad "opera d'arte" conclusa.
La festa e l'omicidio non sono certo due eventi casuali, come avviene nella versione italiana. Dato che l'omicidio era premeditato, la festa ha lo scopo di concludere il piano dando a Brandon l'opportunità di vivere ancora l'adrenalina e le emozioni del post omicidio. Ed è per questo che sono stati invitati i genitori di David, la fidanzata, il migliore amico e soprattutto Rupert Cadell, che altrimenti non avebbe avuto motivo di essere presente.
Spostare la cena dalla sala da pranzo al salotto e quindi il banchetto servito sul cassone/bara non ha solo la funzione di evitare che qualcuno guardi dentro il baule. Il fatto che Brandon sia così eccitato dalla sua nuova idea e la battuta "Tu non comprendi..." non avrebbero senso. L'idea di Brandon è di aumentare l'eccitazione e il suo senso di superiorità servendo la cena sopra al suo capolavoro.
La reale motivazione dell'omicidio poi, aumenta il senso di colpevolezza involontaria che colpisce Rupert, visto che nella versione originaria le sue teorie non sono state prese come semplice scusa per giustificare l'incidente (altro elemento poco logico) bensì come vero e proprio movente. Brandon in italiano dice che il loro omicidio non verrà scoperto perchè senza movente. In realtà tale dialogo non esiste, soprattutto perchè un movente c'è e come, ed è proprio dato dalle lezioni di Rupert che al termine del film si sente (e immaginiamo si sentirà dopo) tanto colpevole quanto loro.
Tutto questo nella versione italiana non esiste.

Vi sono poi alcuni dialoghi che sono stati modificati cambiando non tanto la storia, ma alcuni tratti della psicologia dei personaggi. Possono sembrare sottilliezze, ma non lo sono.
Ad esempio, Rupert Cadell, quando gli viene presentata Janet, alla domanda se Brandon le avesse fatto giustizia parlandole di lei, non risponde "Ne avevate bisogno?" bensì "Ve la meritate?" il che spiega l'espressione attonita della ragazza. Tale risposta è perfetta per inquadrare il personaggio e il suo carattere.
Mrs. Atwater è una astrologa dilettante e questo viene sottolineato dal suo modo di giudicare le persone in base al loro segno zodiacale. Lo si nota (in originale) nel dialogo divertito tra lei, Rupert e Janet davanti al cassone. Parlano di film e attori e la signorina abbina il carattere degli attori al loro segno. Questa è una caratteristica del carattere della donna che in italiano scompare, così come parte del loro dialogo. La donna dice di apprezzare molto Cary Grant e di trovarlo eccezionale. Rupert/James Stewart concorda. Inoltre la Atwater afferma di aver visto un film con Cary Grant e Ingrid Bergman intitolato "Qualcosa". Si tratta molto probabilmente di "Notorius" che lo stesso Hitckcock girò un paio di anni prima. Nella versione italiana Cary Grant viene inspiegabilmente sostituito con un'altro attore e tale ironica auto-citazione scompare completamente.
Completamente falsato anche il giudizio che Brandon ha nei confronti di Hitler e del nazismo, che nella nostra versione accusa semplicemente di essere stati degli sciocchi che per questo motivo hanno perso. In realtà lui accusa fortemente i nazisti di esser stati dei pazzi assassini meritevoli della fine che hanno fatto.

"Nodo alla gola" è un film incentrato sull'elemento macabro dato dalla scelta di Brandon di servire la cena sulla bara del cadavere, (tipico humor nero di Hitchcock) e sul binomio Bene e Male. Il male secondo Rupert era già presente in forma embrionale nel DNA di Brandon, per poi crescere trovando concime nelle teorie del suo maestro che la sua psicologia malata ha trasformato in un senso di superiorità. "Ma chi ti credi di essere, Dio?" gli urla Cadell alla fine del film. Brandon sente di avere quella superiorità intellettuale e culturale che gli può concedere il diritto a uccidere, a scegliere della vita degli altri. Rupert Cadell invece è il Bene e in lui quelle teorie non hanno provocato le stesse conseguenze, tanto da allontanarsi dal gesto dei suoi due ex-allievi.

E poi c'è la maestria di Hitchcock, abilissimo a narrare con la macchina da presa (non potendo usufruire del decoupage) e a equilibrare, come pochi sono stati capaci, il lato macabro e thriller della storia con quello da commedia brillante.
Un film da vedere, ma rigorosamente non in italiano.

domenica 16 marzo 2008

"Onora il padre e la madre" di Sidney Lumet

Animale bizzarro l’essere umano. Ha il potere immenso di distruggere qualunque cosa. Compresa la propria vita. E per farlo non ha bisogno di armi, guerre o violenza. Gli basta fare delle scelte. Fa una scelta sbagliata ed è come se premesse uno di quei bottoni rossi delle astronavi, quelli che provocano l’autodistruzione della navetta. Lo premi e inneschi una reazione a catena che distrugge tutto quello che hai.
I due fratelli di “Before the devil knows you’re dead” fanno una scelta, quella di risolvere tutti i loro problemi economici con una rapina. Ed ecco che il pulsante viene premuto e le loro vite vanno in frantumi e lentamente scivolano verso l’inferno in una caduta senza fine nella quale trascinano anche i loro genitori, la donna che amano e chiunque gli capiti davanti. L’unico augurio che gli si può fare è davvero di raggiungere il paradiso mezz’ora prima che il diavolo si accorga che sono morti. Ma è stata davvero quella la scelta scatenante? No. Se torniamo indietro vedremo che la loro vita, così come la nostra, è stata condizionata da molte di queste scelte sbagliate. E non solo dalle loro.

C’è una definizione riguardo agli scrittori noir, che dice che gli autori di noir sono coloro che, torcia alla mano, entrano negli angoli più bui, paurosi e nascosti delle cose e poi tornano in superficie e ci raccontano quello che hanno visto. Sidney Lumet fa proprio questo. Esplora l’animo più cupo e crudo dell’uomo. Ne osserva il dolore, i sensi di colpa, la pazzia. Ci mostra la spirale di distruzione nella quale sono caduti i protagonisti del film, per via delle loro scelte sbagliate. Non è un’analisi ottimistica dell’essere umano, quella di Lumet, ed è interessante osservare come a 83 anni, il maestro di Philadelphia non abbia di certo addolcito la sua visione del mondo e dell’America. Per raccontarci tutto questo si avvale di una struttura a puzzle, spesso più adatta per esplorare che per entusiasmare. E’ un rischio perché proprio per via della sua natura a incastro ogni nuovo segmento viene visto dallo spettatore come una nuova fonte d’informazione, all’interno di in una indagine che rischia di risultare fredda, quasi come un rebus da risolvere. Lumet, invece, riesce con l’avanzare della pellicola a far alzare il ritmo e soprattutto a prendere il pubblico e a farlo emozionare. E specialmente quando si comincia a mostrare il vero dolore e i veri sentimenti di Andrew, fino ad allora mostrato come distaccato calcolatore e del quale ora invece salta fuori tutta la sua fragilità, sia psichica che emotiva. E Philip Seymour Hoffman è perfetto (come al solito) nel dar vita a questa mutazione che sfocia nella follia più disperata.

Inoltre è proprio Andy il protagonista di alcune delle sequenze più belle del film. Come la prima visita allo spacciatore e quel piano sequenza che lo segue all’interno dell’appartamento. Un appartamento che è quasi un limbo dove stazionano le anime dei peccatori e che segna, per Andy, l’inizio della sua fine. Quasi si trattasse di un simbolico funerale con un’ultima ammissione dei propri peccati.
Splendida anche la morte di Andy, non solo per lo sguardo di Albert Finney che sembra più che un peccatore prossimo a incontrare il diavolo, un uomo che il diavolo lo conosce già bene. Due uomini. Due cuori che battono all’unisono e nel quale scorre lo stesso sangue e che in un modo o nell’altro si sono uccisi a vicenda.

Non è certo ottimistica l’immagine che Lumet ha dell’uomo. Punta il suo sguardo sul suo lato più nero e cancella ogni briciolo di speranza. Forse il film non è un concentrato di innovazione, ma la forza con cui questi eventi ci vengono raccontati è indubbiamente magistrale. Alcune recensioni che ho letto utilizzano tutti il termine “fisicità”. Non posso che essere d’accordo con questa definizione. È un film “fisicamente umano” e pregno di una umanità fisica, tangibile.

venerdì 14 marzo 2008

"Sleuth" di Kenneth Branagh


Quando si parla di binomio tra cinema e teatro, il nome che salta subito alla mente, almeno per quel che riguarda il cinema contemporaneo è quello di Kenneth Branagh. Siamo abituati a vedere le sue bellissime trasposizioni filmiche delle opere di William Shakespeare e anche quando si cimenta con storie moderne, la componente teatrale non manca di certo. Come in "Sleuth" che guarda caso nasce da una pièce teatrale firmata Anthony Shaffer. Il film è idealmente diviso in tre parti o sarebbe meglio dire, in tre atti. Al centro della storia vi sono solo due personaggi, il ricco e calcolatore scrittore di romanzi Andrew Wyke e lo squattrinato e folle parrucchiere/attore/autista Milo Tindle. Tutto il film è una sfida tra i due, un duello di malignità e intelligenza dove in ogni istante le parti si invertono, lo scettro del comando passa di mano in mano, colui che prima era il gatto ora diventa il topo, ma basta attendere qualche minuto e le carte in tavola cambiano ancora e alla fine, nel terzo atto non sai più chi sta manipolando chi. Oggetto del contendere è una donna, o almeno così è all'inizio, poi entrano in gioco l'orgoglio, la vendetta, il divertimento, il machismo.
A sostenere questo duello psicologico (e non solo) è la splendida sceneggiatura di Harold Pinter che con i suoi dialoghi e i cambi di tono dirotta il film dal dramma alla commedia, dal thriller al grottesco. I dialoghi sono ricchi di sottintesi, di elementi nascosti che esaltano questo gioco di ruolo e di ruoli e che permettono al film di regalare sempre qualcosa di nuovo allo spettatore visione dopo visione. Così come solo i grandi film riescono a fare.

La sfida però non è solo tra Andrew e Milo, ma anche tra i due attori che, rubando un'espressione teatrale, reggono il palcoscenico da soli per gli 87 minuti di spettacolo. Michael Caine aveva già interpretato il primo "Sleuth" quello datato 1972, ma in quel caso vestiva i panni di Milo, mentre adesso tocca a lui trasformarsi nel giallista milionario. Parlare del suo talento è superfluo. Caine è un mostro sacro del cinema e del teatro e la capacità con cui cambia registro in una frazione di secondo semplicemente con uno sguardo è una lezione di recitazione sublime. Accanto a lui troviamo Jude Law (che per la seconda volta interpreta un ruolo che in passato era stato di Caine, così come accadde con il remake di "Alfie"), colui che ha voluto fortemente realizzare questo film e che senza ombra di dubbio mette in scena la sua migliore interpretazione di sempre. Ingenuo e spaventato prima, psicopatico e determinato poi.

Ed è proprio qui che sta la forza del film, in questo continuo cambio di ruoli, di registro, in questo gioco sottile e malvagio tra i due protagonisti, un gioco fatto di bugie, di battute taglienti, di colpi di scena e colpi di pistola. Branagh lavora alla storia come se si trovasse di fronte a un dramma del "Bardo" ma catapultato nel Duemila. "Sleuth" è un film dalle mille facce che cambia strada di continuo. Lo fanno i protagonisti, lo fanno i dialoghi di Pinter, lo fa la fotografia e la scenografia che mutano e si trasformano di continuo e lo fa anche la regia di Branagh. Alterna primissimi piani, che cercano di scrutare l'animo vero dei protagonisti, a campi lunghi che alleggeriscono la tensione, pronto però a ributtarsi nel duello qualche istante dopo. Gioca con i pianisequenza, con le angolazioni. Mostra e nasconde. Prima ci avviciniamo agli occhi dei personaggi, poi ci allontaniamo e guardiamo la scena dai monitor di video sorveglianza. Adatta la sua regia alla situazione, mette la sua macchina da presa al servizio della sfida. La sua è una vera e propria messa in scena.

martedì 11 marzo 2008

"Thank you for smoking" di Jason Reitman


Hitchcock ci ha insegnato a fare il tifo per i cattivi. O quanto meno ha fatto di loro i veri protagonisti di molti dei suoi film. Dopo di lui, molti altri hanno messo al centro delle loro storie personaggi negativi, spesso violenti, altre volte moralmente deprecabili.

E' il caso di Nick Naylor, portavoce del più importante colosso dell'industria delle sigarette. Il suo lavoro è "avere ragione" e la sua ragione è che le sigarette non uccidono.

Reitman realizza così una commedia politicamente scorretta, mettendo al centro un personaggio assolutamente negativo ma riuscendo a rendercelo simpatico, grazie anche all'interpretazione di Aaron Eckhart. E nonostante il pubblico non finisce per fare il tifo per Naylor, si diverte a vedere la sua momentanea caduta e la surreale quanto astuta risalita.

Dal punto di vista della commedia Reitman centra il bersaglio, tessendo una sceneggiatura ben costruita, strutturata principalmente sui dialoghi, alcuni dei quali azzeccatissimi. Il ritmo non cala mai e i tre piani su cui si snoda la vicenda di Nick Naylor, ovvero il suo lavoro, il rapporto con il figlio e la relazione con la giornalista (una come sempre insopportabile Katie Holmes) risultano sempre interessanti.

Se come commedia il film colpisce a bersaglio, non si può dire altrettanto sull'aspetto di denuncia o di riflessione che un tema come questo doveva avere. "Thank you for smoking" infatti non punge, non colpisce l'industria del tabacco, nè attacca l'uso e l'abuso di sigarette. E' chiara la volontà di Reitman di mantenere salda l'immagine negativa del personaggio che anche di fronte a suo figlio non abbandona le sue idee. E se questa scelta, per quanto rischiosa, è sicuramente lodevole perchè ci evita il solito finalino perbenista con il protagonista che si redime dai suoi peccati, viene a mancare così anche l'ultima possibilità di puntare il dito e criticare.

Ma apparte questo aspetto "Thank you for smoking" risulta essere una bella commedia, divertente e ricca di dialoghi taglienti e, grazie a Dio, politicamente scorretta che cerca di parlare di un tema drammatico stando dalla parte dei cattivi. Lodevole anche la capacità di Reitman di cadere nel facile trabocchetto di un finale patetico, specialmente nella sequenza finale della testimonianza di Naylor all'udienza.
Una commedia che mette in luce Jason Reitman debuttante figlio d'arte che ora attendiamo con ansia con la sua prova del nove, il già acclamato "Juno".


lunedì 10 marzo 2008

"Fahrenheit 451" di Françoise Truffaut


Una società che ha dichiarato guerra ai libri e automaticamente alla cultura, al sapere e all’arte. Una società i cui pompieri, invece che spegnere incendi, li provocano gettando al rogo proprio quei ricettacoli di malessere che sono i libri.
Non poteva che essere un regista francese, a portare sullo schermo il romanzo di Bradbury, uno di quei intellettuali della Nouvelle Vague, spesso protagonisti di rivolte e manifestazioni in nome della libertà di pensiero. E tra tutti loro non poteva che essere Françoise Truffaut ha prendere in mano la trasposizione del fantascientifico “Fahrenheit 451”.
Leggere nella stessa frase le parole Truffaut e fantascienza provoca un momento di smarrimento per quanto siano lontani dal fantastico le opere del regista francese. Ma “Fahrenheit 451” non è un film di fantascienza anche se ambientato in un futuro imprecisato. Infatti, così come accade per l’“Arancia Meccanica” di Kubrick, gli eventi sono trasportati in là nel tempo per poter meglio raccontare il presente.
Quello che infatti sta a cuore a Truffaut non è raccontare una storia fantasiosa sul nostro futuro, ma denunciare lo stupro che la società moderna compie nei confronti della cultura. E ai giorni nostri, in Italia, siamo più che mai testimoni di questa lenta cancellazione della cultura e dell’arte a discapito di una ignoranza ostentata come status-symbol.
“Fahrenheit 451” è una storia di uomini e di ricordi del passato. Gli uomini e i ricordi che riempiono le pagine dei libri e che Montag cerca disperatamente di comprendere e fare suoi, per potersi mettere in pari con l’umanità che lo ha preceduto. “Devo mettermi in pari con i ricordi del passato” così dice Montag alla moglie e questa frase ben sintetizza quello che è capitato alla società futurista del film, ovvero essere arretrata rispetto al passato. È il futuro ad essere indietro, a dover accelerare il passo per raggiungere il passato e tornare ad essere “membri della razza umana” come diceva il Professor Keating in “L’attimo fuggente”.

Da un punto di vista tecnico Truffaut non si allontana poi molto dallo stile registico dei tempi della Nouvelle Vague. Non è mai stato un regista così sperimentale, come al contrario era Godard, e anche in un film come questo, ambientato nel futuro, Truffaut mantiene sempre in primo piano i personaggi e i loro sentimenti più che le avveniristiche macchine del futuro e non si lascia andare ad arditi sperimenti visivi. È la sua sensibilità che porta il film ad un piano più attuale, sottolineando un dramma che oltre che sociale è anche, se non soprattutto umano (dell’uomo come persona e come essere umano).
Truffaut strizza l’occhio al maestro Hitchcock un paio di volte, come nella scena dell’incubo di Montag che sembra uscita da “Vertigo” o come quando l’ex-pompiere cerca di impossessarsi della scheda su Clarisse entrando di nascosto nell’ufficio del Capitano.
Gli insistiti primi piani ai libri che vengono ammassati sul pavimento, mentre vengono bagnati con la benzina o mentre bruciano, mostra l’attaccamento di Truffaut per i libri e il suo tentativo di paragonare la loro distruzione a un genocidio compiuto sul genere umano. “In ogni libro c’è dietro un uomo”, ed ecco che i pompieri finiscono per commettere un vero e proprio omicidio di massa, distruggendo quelle memorie, quei ricordi e quelle persone che Montag cerca di riportare in vita.