lunedì 15 dicembre 2008

"Come Dio comanda" di Gabriele Salvatores


Trasportare sullo schermo quasi 500 pagine di romanzo non è impresa facile. Ancora di più se in quelle 500 pagine si intrecciano le storie di ben 4 personaggi principali, più un paio di comprimari le cui vite si fondono insieme in un'unica notte, in un'unica tempesta che sconvolge non solo il paese me quelle stesse vite, per sempre.
Salvatores ci prova, prendendo in mano per la seconda volta un opera letteraria di Ammaniti e con il supperto dell'o stesso autore alla sceneggiatura porta sullo schermo quelle 500 pagine. Il risultato è francamente deludente.
Va premesso che ovviamente il libro andava ampiamente snellito, letteramente amputato di gran parte delle vicende narrate ed era necessario puntare l'attenzione solo su alcuni personaggi. La scelta cade come è ovvio di Rino e suo figlio Cristiano veri protagonisti del film e tra Donato e Quattro Formaggi, i due amici di Rino, la scelta è caduta su quest'ultimo preferendo quindi l'omicidio della ragazzina alla rapina al bancomat.
La scelta a parer mio mi sembra corretta. Mantenere anche il personaggio di Donato, con tutto il suo passato doloroso (la morte della figlia e la separazione della moglie) avrebbe allontanato troppo l'attenzione da padre e figlio e sarebbe stata veramente una storia a se stante.
Quattro Formaggi invece e il suo omicidio, diventano una buona scusa per indagare ancora più affondo il rapporto tra Cristiano e Rino.

Il problema qual'è? E' che tutto appare un po' frettoloso, un po' superficiale. La tempesta, quella notte di pioggia e fulmine che cambia la vita dei protagonisti perde completamente di significato simbolico rispetto al libro. Si parla tanto di influenza Shakespieriana, ma proprio uno degli elementi tragici della storia si trasforma in un semplice elemento scenografico senza alcun valore. E poi Dio dov'è? Che senso ha il titolo nel film? Spunta fuori nel finale, ma senza forza, senza peso. La trasposizione dal letterato al filmico ritengo che necessiti sempre di abbondanti cambiamenti, di modifiche nella struttura narrativa, di innesti e amputazioni calcolate, ma sempre senza snaturare la storia, i personaggi e l'essenza del romanzo. Qui mi sembra che si prendano in prestito dei personaggi per mettere insieme quello che appare come un singolo episodio di una storia più ampia. Il film non ti trasporta come dovrebbe fare, sembra sempre che prima o poi decolli, che questa sia solo una introduzione a qualcosa di più ampio respiro e invece niente.

Non lo so, forse conoscendo il romanzo la sensazione di esagerata sintesi viene amplificata, però è innegabile che alla fine Salvatores (che ormai non azzecca un film decente dal '97 eccezion fatta per "Io non ho paura") abbia creato un opera abbastanza banalotta, snaturando quello che di buono c'era nell'opera di Ammaniti. Ne viene fuori qualcosa di completamente diverso, che come legame ha solo i nomi dei personaggi e poco altro. "Come Dio comanda" è una di quelle trasposizioni che mi portano a domandarmi che senso abbia fare un film su un romanzo se poi del romanzo finisce per esserci ben poco. Scrivere una storia originale no? Se è così difficile trasportare 500 pagine scritte da Ammaniti sullo schermo perchè farlo? Vabbè domande retoriche lo so, però si spera che qualche regista intelligente (e Salvatores dovrebbe esserlo) finisca per porsele prima di girare un film del genere.

Nota positiva per l'ottimo cast composto da Filippo Timi, Elio Germano e l'esordiente Alvaro Caleca.

martedì 2 dicembre 2008

Cambio di finale per Allen e Shyamalan


In questo post non commento nessun film. Faccio solo una considerazione riguardante i finali di due film alla luce della recente visione dei rispetti DVD. I film sono "Sogni e delitti" di Woody Allen e "E venne il giorno" di M. Night Shyamalan. (per la cronaca sono entrambi autori che adoro). Entrambi i film mi hanno lasciato perplesso per quanto riguarda il finale. Il primo conclusosi troppo sbrigativamente con quella inquadratura della barca dei due fratelli che sembra non avere alcun significato apparente, l'altro invece con un troppo buonista e fuori luogo siparietto famigliare. Ora, rivedendo i film in DVD ho compreso quei finali e li ho rivalutati. Ecco come.

Per quanto riguarda il film di Allen, ammetto che avrei potuto fare questo ragionamento direttamente in sala, ma al momento non ci avevo pensato. Tutta colpa del traduttore dei titoli. "Sogni e delitti" infatti come ben si sà è il titolo italiano del film, mentre quello originale è "Cassandra's Dream", il sogno di Cassandra. Cassandra, figlia si Priamo, secondo la mitologia greca ebbe in dono da Apollo il potere di predire il futuro. Le sue, però, erano previsioni funeste, a cui nessuno credeva. Era, quindi, portatrice di sventure e tragedie.
Nel film, il sogno di Cassandra è il nome che i due fratelli danno alla loro barca, con l'augurio che questa gli porti fortuna in vista dei piani, soprattutto finanziari, che hanno in mente. Le cose però andranno in tutt'altra maniera. Il sogno di prosperità si tramuterà presto in tragedia.
Woody Allen decide di chiudere il film andando proprio a inquadrare la loro barca, teatro della loro morte nonchè della definitiva realizzazione del funesto presagio. Quell'inquadratura va a chiudere degnamente il tragico sogno andando ad evidenziare come tutto era fin dall'inizio già previsto. Con l'acquisto di quella barca e soprattutto con la scelta di quel nome (che deriva dal nome di uno dei cani sui quali Terry aveva scommesso alle corse e grazie al quale ha vinto i soldi necessari all'acquisto della barca) Terry e Ian hanno segnato la loro vita. Noi spettatori lo sapevamo fin dall'inizio, o almeno avremmo dovuto e Allen ce lo ricorda proprio con quella inquadratura in chiusura. Proprio perchè la storia di Terry e Ian è la storia di una profezia, di un presagio drammatico che fin dall'inizio Cassandra ci aveva raccontato.

Il secondo finale, questa volta, acquista maggior senso proprio grazie al DVD uscito di recente. "E venne il giorno" l'ultimo lavoro di uno dei più interessanti registi contemporanei, M. Night Shyamalan, termina con un quadretto famigliare nel quale troviamo Alma in attesa del risultato del test di gravidanza. Il risultato è positivo e tutta felice scende in strada per annunciare la lieta notizia al suo maritino. Finale sinceramente assurdo e completamente fuori contesto, più adatto ad un film di serie B che ad un opera di un autore attento ed originale come Shyamalan. Va detto intanto che, a detta dello stesso regista, vi erano effettivamente sin dall'inizio le intenzioni di realizzare un bel film di serie B, ma ad ogni modo questo finale sembrava veramente più una costrizione proveniente dalla produzione che una idea originale del regista.
Invece, ho capito le intenzioni di Shyamalan e la funzione di questo finale visionando le scene tagliate del film. Tra queste vi è l'originale sequenza di apertura della pellicola che, a dfferenza del "final cut", non cominciava a Central Park, ma bensì a casa di Alma ed Elliot nel bel mezzo di una litigata. Alma rivela al marito di non sentirsi protetta da lui, di vederlo ancora come un bambino, di non essere per questo pronta ad avere un figlio e di essere sempre stata convinta che lui non avrebbe mai potuto dargli la sicurezza di cui ha bisogno.

Alla luce di questa scena, è chiaro quali erano le intenzioni di Shyamalan fino al montaggio. Il film finisce a casa Moore perchè è iniziato a casa Moore. Gli eventi drammatici che hanno sconvolto il mondo hanno alla fine, paradossalmente, messo a posto la situzione sentimentale dei personaggi. La tragedia ha portato Elliot e Alma a guardarsi in faccia, a scoprire se stessi e aiutato Elliot a raggiunge finalmente Alma che fino a quel momento era sempre un passo in avanti e per questo si sentiva insicura e sola. Nel mezzo di questa situazione di coppia, all'improvviso, senza spiegazione la Natura si ribella e scoppia il panico. 45 anni fa erano gli uccelli che spargevano morte e follia tra la gente, adesso la Natura si manifesta in altro modo, Poi, così com'è cominciato l'orrore finisce, senza motivo, senza segnale alcuno. La vita torna alla normalità, con la consapevolezza che non siamo e non saremo mai padroni del mondo, che siamo solo ospiti di una realtà molto più potente di noi. E la vita riprende anche per la nostra coppia che ora però è cambiata. Elliot ha dimostrato di potersi prendere cura di Alma e ora che i due sono diventati per la prima volta una cosa sola, lei può essere felice di dare alla luce un bambino. Perchè poi è proprio di questo che parla il film: della necessità dell'uomo di dover guardare dentro se stessi, di staccarsi dal gruppo, dalla società per capire realmente chi siamo e chi sono gli altri (tutto questo viene mostrato allegoricamente dalla necessità dei personaggi di isolarsi in gruppi sempre più piccoli per sfuggire alla tossina).

La scena venne scartata in fase di montaggio da Shyamalan, perchè giustamente finiva per spiattellare in faccia allo spettatore tutta la situazione sentimentale dei due personaggi nei primi 5 minuti. Mentre, in questo modo, noi scopriamo mano a mano quello che succede tra i due, quello che pensano e quello che provano, sentendo parlare di una discussione, di una litigata di cui non conosciamo niente ma che permette di dare spessore ai personaggi.
Ora uno può chiedersi, ma se hai deciso di togliere questo inizio, perchè non togliere anche il finale che ora perde di significato?
Il motivo è che la decisione è avvenuta in fase di montaggio, quando il film era già bello che girato e non in fase di sceneggiatura. Un inizio può essere modificato, basta scartare la scena 1 e cominciare con la scena 2. Ma questo non è possibile farlo con il finale, almeno che appunto non si sia ancora in tempo per scriverne e girarne uno nuovo. Eliminare la scena finale del test di gravidanza non era possibile proprio perchè non c'era nessun finale a disposizione. Non si poteva certo finire con Elliot e Alma che si incontrano sul prato, ne con la sola scena di Parigi. Bisognava per forza utilizzare l'unica conclusione prevista, che anche se ormai poco significativa, era l'unica possibile.

lunedì 1 dicembre 2008

"Il circo" di Charlie Chaplin

Non ho mai provato una sensazione di tristezza tale come quando guardo i film di Chaplin. Può sembrare un paradosso, ma la straordinaria capacità che aveva di passare da una gag comica che ti fa piegare dalle risate alla sequenza più malinconica e triste era straordinaria.
E poi, Chaplin era la vera essenza dell'Artista, nel significato più accademico del termine. Colui che osserva la realtà e attraverso il suo talento la filtra e la ripropone al pubblico sotto forma di film, romanzo, quadro, musica, fotografia per mostrare quello che gli altri non hanno visto, per far chiarezza su quello che ci circonda.
"Il circo" è uno di quei film che contiene al suo interno tutto Chaplin e forse qualcosa di più. C'è la sua comicità, c'è la sua presenza scenica, c'è la sua malinconia, la sua dolcezza, il suo talento creativo dietro la macchina da presa. Ci sono persino le sue musiche e la sua voce, nella canzone che scorre sopra i titoli di testa.
Nel suo continuo pellegrinare per il mondo, o meglio nel suo continuo fuggire dalle autorità, il vagabondo questa volta si ritrova all'interno di un circo, dove suo malgrado diventa protagonista di un numero di clown, fino a quel momento per nulla divertente, che proprio grazie alla presenza di Charlot finisce per diventare il clou dello spettacolo. Per questo motivo, il tramp verrà assunto e potrà vedere di persona il meschino e violento mondo del circo. La stella che si rompe in apertura di film e la porta che si apre e che in tutta la sua forza e gioia ci proietta nel magico mondo del circo. Mondo che dopo pochi istanti scopriamo essere tutto fuorchè magico. E' un mondo violento, assurdo e selvaggio. Fatto di padri padroni, talenti sfruttati, meschinità, sotterfugi e follie. Insomma il circo assomiglia moltissimo al nostro mondo, alla nostra società.
Charlot vi si trova catapultato dentro e finisce incastrato negli ingranaggi della società, come ai tempi di..."Tempi Moderni".

Emblematica la scena del numero sulla fune. Charlot viene costretto dal direttore del circo a fare qualcosa per cui non è portato, finisce letteralmente per mettere la sua vita in equilibrio su un filo, con l'assurdità e la follia del mondo (le scimmie) che lo tartassano, cercano di farlo fallire. Lui si ritrova senza più niente, resta in mutande addirittura e alla fine, grazie alle sue capacità riuscirà a salvarsi. Una scena che sintentizza perfettamente il pessimismo con il quale Chaplin guardava il mondo che lo circondava, quella società fatta di padroni disposti a lasciarti in mutante per non fallire, ma dalla quale solo gli artisti, con il loro talento sono in grado di salvarsi.
Splendide anche la famosissima sequenza della stanza degli specchi, (manifesto della meticolosità con cui Chaplin studiava le sue gag nelle quali tutto era calcolato alla perfezione), la scoperta da parte di Charlot dell'amore della ragazza per Rex e relativo crollo delle sue speranze e dei suoi sogni (questa è una di quelle straordinarie sequenze malinconiche dei suoi film) e il finale. Su un prato vuoto, al centro del cerchio lasciato dal tendone sull'erba, Charlot, dopo aver lasciato andar via il suo amore, resta lì, con la stella di carta in mano che appollottola e calcia via, lasciandosi alle spalle quel mondo e riprende il suo cammino verso l'infinito, da solo, ma ancora puro.