giovedì 1 ottobre 2009

"Frozen River" di Courtney Hunt


Dietro al passaggio tra legalità e criminalità, da parte di gente comune, gente per bene, c'è sempre il denaro. O meglio la mancanza di denaro. Una famiglia da mantenere, le bollette da pagare, il frigorifero da riempire.
Dietro a una madre che cerca di dar da mangiare ai propri figli, c'è sempre la mancanza di un marito. Magari morto, magari scappato con una più giovane, magari latitante.
Dietro a una ragazza sola che nasconde qualcosa e cerca di arrangiarsi, c'è sempre un figlio piccolo, che non può tenere, che non può crescere e che magari osserva da lontano, silenziosamente.
E in questo film, ci sono sia una brava persona che si da al crimine, sia una madre con figli a carico, sia una ragazza che non può fare la madre. Il finale quindi, capitelo da soli.

Acclamata al Sundance Film Festival, l'opera prima di Courtney Hunt sembra esser rimasta congelata, come quel fiume di ghiaccio che le due protagoniste devono costantemente attraversare. Congelata in una storia già vista, che non si surriscalda mai, che dona poche emozioni al pubblico.
La prima parte è ottima, ben costruita, con la protagonista che decide di continuare quel gioco pericoloso nella quale è finita per puro caso. La ricerca del marito la porta a scoprire qualcos'altro, non solo un'amicizia ma una scappatoia dalla vita di tutti i giorni.
E' quello che succede dopo che non convince e non emoziona. Il gioco pericoloso alla fine si rivela non così pericoloso. Le due rotagoniste non restano mai davvero coinvolte nel traffico, ne si mettono davvero nei guai. Anche l'abbandono involontario di un neonato in mezzo al ghiaccio e l'angoscia di averlo ucciso non risalta così prepotentemente. Sembra quasi che non gliene freghi nulla e a noi non rimane molto, alla fine della visione.
I figli, soprattutto il 15 enne, è praticamente inutile. Oltre a rischiare di dar fuoco alla casa non fa nulla. Neanche disobbedisce alla madre. Non si caccia di guai, ne al contrario, fa qualcosa di positivo. Se le sue scene fossero state tagliate in fase di montaggio, non sarebbe cambiato nulla.

A volte al valito Sundance Film Festival prendono qualche cantonata. "Frozen River" è un film comunque ben girato, con un sempre presente effetto documentario (che sembra l'unico modo per girare un film indipendente), ma che doveva entrare più in profondità nelle pieghe noir della vicenda e rendere più forte il conflitto di una convincente, ma troppo frozen, Melissa Leo.

lunedì 24 agosto 2009

"American History X" di Tony Kaye

pubblicato su "www.filmedvd.it"

Storia di razzismo?
Storia sull'impatto sociologico del nazismo?
Storia sull'impatto della società deviata nei giovani d'oggi?
Storia americana?
American History X è tutto questo e anche qualcosa di più. L'opera prima di Tony Kaye è soprattutto una storia di rinascita. Di morte e rinascita. Di redenzione.
Derek muore. Da giovane, da ragazzo precipita in un buco nero fatto di violenza, odio, razzismo, onnipotenza. Come essere umano Derek non esiste più. Come un angelo caduto precipita all'inferno. Un inferno senza colore, senza vita, dove l'unica prerogativa è cancellare, uccidere, eliminare tutto quello che non rientra nella visione della vita da lui delineata.

Il film ha una netta struttura in tre parti, se volessimo dispiegare la storia nell'ordine cronologico in cui si svolgono i fatti. Questa, quella della morte di Derek è la prima parte. L'Inferno.
Il Purgatorio, la seconda fase di questo cammino di redenzione e rinascita che è la storia di Derek è il carcere, dove la sua anima di angelo caduto riprende coscienza di se e del mondo. Derek torna in vita, comprende chi è, comprende quello che ha fatto, comprende soprattutto chi sono i suoi compagni e qual'è l'odio cieco e assurdo al quale ha dato retta fino a quel momento. Derek si redime, non solo legalmente, ma soprattutto psicologicamente.
Ora, in una tale visione del film, la terza parte, quella del ritorno a casa, quella dove il colore torna a riempire l'inquadratura, dovrebbe rispecchiare il Paradiso, ma American History X è troppo realistico per non sapere che il Paradiso in Terra, non esiste. Ed ecco che i peccati commessi da Derek non possono essere del tutto espiati e la tragedia lo marchierà a vita, ricordandogli per sempre di quando era morto.

American History X” fu vittima ai tempi di un contrasto forte tra Kaye e la produzione che si impose molto sul neo-regista che dovette rinunciare al potere decisionale del final-cut. Quindi nel prodotto finale è difficile distinguere tra quello che è veramente frutto del regista e quello che invece è stato imposto dalla produzione. Non sappiamo ad esempio, a chi spetta l'onere della struttura narrativa e della decisione di dividere in film, metà in bianco e nero e metà a colori, oppure di mischiare l'ordine degli eventi. In entrambi i casi però, chiunque ne abbia il merito, mi sento di dovermi congratularmi per la scelta fatta. Come già accennato il B/N o Colore va ad indicare le due diverse vite di Derek, quella prima e quella dopo la redenzione, dopo il Purgatorio. L'ordine degli eventi, nel quale vediamo prima il passato da Nazi del protagonista, poi il suo stato di redento e infine l'elemento più importante, l'aspetto cardine del film, ovvero il carcere. Il rischio era che un passaggio così forte tra il Vecchio Derek e il nuovo Derek, completamente l'uno contrapposto all'altro risultasse fasullo se gli avvenimenti del carcere non avessero abbastanza forza e convinzione per spiegare la mutazione. Il rischio corso però ha dato i suoi frutti. Quello che accade in prigione a Derek è non solo credibile, ma “giusto”. Nel senso che ora si trova incastrato in quel folle progetto di odio e vendetta che è il razzismo. Da carnefice ora si ritrova vittima. Vittima dei suoi stessi “fratelli”. Questo schiaffo della realtà lo porta a vedere tutto con più nitidezza (ecco ancora il passaggio al Colore). Uno schiaffo talmente forte che anche se non vissuto in prima persona, riesce a convincere suo fratello che la scelta giusta da fare è abbandonare quella strada. Ma come è stato detto, il Paradiso in Terra non esiste e ormai è troppo tardi. Per uno che torna alla vita, qualcuno la lascia per sempre.
 Questa è la storia americana, quella con X maiuscola.

giovedì 13 agosto 2009

"Non è un paese per vecchi" di Joel e Ethan Coen


Ci risiamo. Succede tutte le volte (o quasi) che ci si appresta a parlare di un film tratto da un romanzo. Di un'opera cinematografica che trae ispirazione da un'opera letteraria.Ogni volta il dilemma salta fuori. Si può parlare di un adattamento senza prendere in considerazione l'opera originaria? Si può giudicare un film senza aver letto il romanzo?
Ovviamente la risposta non può essere univoca per tutti i film. In alcuni casi diventa addirittura inutile, come per le opere di Stanley Kubrick che sono quasi tutte adattamenti di altrettante opere letterarie. Ma il genio di Kubrick e la sua unica concezione del cinema, rendono ogni singolo film assolutamente indipendente dalla sorgente letteraria rendendoli a tutti gli effetti storie originali. In altri casi invece è doveroso soffermarsi anche sul romanzo e notare come la storia sia stata trasportata sullo schermo.
Uno di questi film è “Non è un paese per vecchi” tratto dall'omonimo romanzo di Cormac McCarthy, uno dei migliori adattamenti degli ultimi anni. I Coen portano sullo schermo in maniera il più fedele possibile, quasi scientifica, tutta la tensione, tutto il fascino e tutti i magnifici dialoghi di McCarthy amplificandone la bellezza attraverso il loro indubbio talento.

Molti di coloro che hanno letto il libro del Premio Pulitzer americano potranno pensare che il lavoro dei Coen fosse facile. Ancora di più se si voleva restare fedeli al libro. Non si sono dovuti neanche impegnare molto a scrivere i dialoghi o a creare personaggi. Era già tutto nelle pagine di McCarthy. E invece le cose non sono così semplici. Perchè un conto è la pagina scritta, il racconto per parole e tutta un'altra cosa e raccontare la stessa storia, la stessa scena, lo stesso dialogo sullo schermo. Intanto è necessario selezionare, dividere ciò che va mantenuto da quello che sullo schermo non può funzionare. Bisogna cesellare. E in questo i due fratelli del Minneapolis sono stati fantastici, dimostrando grande padronanza della struttura e delle regole narrative del cinema, sapendo cogliere le situazioni più cinematografiche, adattandole dove necessario alle esigenze filmiche ed eliminando i rami morti (per il film ovviamente) che sarebbero stati di troppo, se non addirittura dannosi per la crescita dell'organismo-film.
L'altra difficoltà è quella di trasformare una scena di Cormac McCarthy in un scena dei Fratelli Coen. “Non è un paese per vecchi” nonostante non nasca da un soggetto originale è a tutti gli effetti un'opera dei Coen, anzi è probabilmente la summa di tutti i loro lavori, della loro straordinaria capacità di utilizzare a 360° il mezzo filmico per creare quello che si avvicina il più possibile al concetto di Mito. Il lavoro dei Coen può essere visto come un lavoro di modellazione, quasi come degli artigiani dell'argilla che plasmano una figura tridimensionale fino a quel momento esistita solo sulla carta sotto forma di schizzo preparatore. Un personaggio come quello di Anton Chigurh, il killer con la bombola ad aria compressa (idea di McCarthy) che i Coen plasmano in IL killer per eccellenza vestendolo di pura follia. Il taglio di capelli di Bardem è perfetto, elemento grottesco affibbiato ad un personaggio che di grottesco non ha nulla. Proprio per la sua apparente buffoneria, la violenza risulta ancora più efferata e Chigurh ancora più terrificante. La presenza scenica di questo personaggio non ha eguali. Quando entra in scena lui, sembra di assistere all'ingresso di Darth Vader. Non sai cosa aspettarti, ma sai che non sarà nulla di positivo.

Il modo con cui i Coen utilizzano il "non visto" (sono pocchissime le morti che avvengono sullo schermo, si arriva spesso sul posto a fatto compiuto), la suspance, la tensione, attraverso un ritmo lento che rende la storia allo stesso tempo glaciale, meticolosa e adatta alla riflessione. La glacialità e meticolosità con cui Chigurh e Llewelyn fuggono e inseguono e la riflessione di quell'uomo troppo vecchio per stare al passo con un mondo ormai non più adatto a gente come lui. Lo sceriffo Bell, narratore e moralizzatore, è il nostro legame con quel no country for old man in cui anche noi ci sentiamo fuori luogo.
La sequenza del motel, il dialogo tra Chigurh e il benzinaio, la fuga di Moss inseguito dal cane (una fotografia da mozzare il fiato), il sogno di Bell, sono decine le scene di una perfezione assoluta, che donano al film un aurea da capolavoro. Sintesi perfetta di “Non è un paese per vecchi” il sogno finale dello sceriffo, sintesi del contrasto tra il vecchio e il nuovo. In quel buio e in quel freddo in cui è precipitato il mondo, chi vi è cresciuto dentro resta indietro, resta perduto. Ma da qualche parte, forse proprio nel nostro passato (il padre) possiamo trovare ancora una luce a guidare il cammino. E quel “E poi mi sono svegliato” che lo ripiomba in un istante nella quotidianità. Magistrale.


sabato 30 maggio 2009

"Rififi" di Jules Dassin


Una delle leggi non scritte del cinema, dice che è inutile cercare di inventare qualcosa di nuovo da raccontare. Tutto è già stato creato in passato. Guardando "Rififi", la legge sembra trovare immediata conferma. Il film di Dassin può essere definito come capostipite di tutto il filone gangster movie. Da qui in poi, rimane poco da inventare. Visto oggi, la prima cosa che si potrebbe dire su "Rififi" è che si tratta di un film "classico". Tutto è al suo posto. Banda di rapinatori, cattivo di turno, colpo impossibile, riscatto e persino la ex che ora se la fa con il boss rivale. Tutto come da copione. Ma visto l'anno di realizzazione, 1955, e osservandolo più attentamente, il termine più adatto per definirlo è "moderno", anzi "innovativo". Solitamente i gangster movie si dividono in due tipi: quelli che puntano tutto sui personaggi, rendendoli sfaccettati, spesso sopra le righe con tratti distintivi ben marcati e quelli che invece si concentrano maggiormente sull'intreccio, sul "colpo", cercando di creare una storia più originale e ingarbugliata possibile, a discapito però dei personaggi che finiscono per essere maschere tipiche del genere.

"Rififi" a prima vista si classificherebbe nel secondo gruppo. Se non fosse per Tony, il laureato, la mente del gruppo, l'organizzatore del piano. Perchè Tony è un personaggio ambiguo, sfaccettato, in continua mutazione. Non è solamente il capo banda, è qualcosa di più. All'inizio del film, quando facciamo la sua conoscenza è uno sfigato giocatore di poker. Uno che deve chiedere soldi agli amici, per poter continuare a giocare, perchè i suoi continua a perderli una mano dopo l'altra. E in più, di lui ormai non si fida più nessuno. Subito dopo scopriamo qualcosa in più su di lui. E' un rapinatore di banche, o meglio è un bravo rapinatore di banche, o ancora meglio era un bravo rapinatore di banche, che ormai però sembra essere sulla strada del pensionamento. E' una mente lucida, intelligente che sa il fatto suo. Dopo pochi minuti ecco una nuova mutazione. Ora lo vediamo nelle vesti di un patrigno affettuoso, amorevole con il proprio figliastro che tra l'altro porta il suo stesso nome. Ci risulta persino simpatico. E arrivati fin qui, (sono passati solo 10 minuti) ci sembra di trovarsi di fronte il classico ladro dal buon cuore con tanta esperienza alle spalle e ormai poco da chiedere alla vita.
Ma le cose cambiano quando entra in scena lei, la donna amata che viene dal passato. Ed ecco che Tony si sfila la cintura e comincia a picchiare la donna per vendicarsi del tradimento subito. Un picchiatore di donne, un uomo violento.
Altro che ladro gentiluomo come pensavamo. Questo ha un'anima nera, cupa, violenta che si manifesta per una donna, per una stupida storia d'amore. Ultima metamorfosi, alla fine della pellicola, quando veste la maschera dell'eroe. E' lui a salvare il bambino e a morire per riportarlo a casa dalla madre. Un personaggio quindi ricco e mutevole, estremamente interessante che va ad unirsi agli altri membri della banda, che al contrario rispecchiano gli standard del genere senza grosse mutazioni. E' Tony a dare vita al piano e poi, in un certo senso, a distruggerlo (non dimentichiamoci che è stato lui a scegliere nella banda Cesare, il Marsigliese, lo scassinatore donnaiolo che finirà per essere il punto debole del gruppo).

"Rififi" brilla soprattutto per la sceneggiatura, ben architettata che fino alla fine non svela il suo finale. Fino alla fine, infatti, non si sa come la storia andrà a finire, chi sopravviverà e chi invece si ritroverà con una pallottola in petto. L'intreccio in cui si ritrova inconsapevolmente coinvolto Jo, il braccio della banda, il padre del piccolo rapito è magistrale. Tutto sembrava risolto e invece un imprevisto cambia le carte in tavola.
Ma il fulcro del film, è la scena madre, la rapina. Circa 30 minuti di puro cinema. Un racconto per immagini di grande tensione e splendidamente orchestrato, tra regia, fotografia e interpretazioni. Una rapina che fa scuola. La forza di questa sequenza sta nella scoperta poco alla volta del piano e questo grazie all'intuizione di Jules Dassin e Renè Wheeler, sceneggiatori del film, di eliminare un altro elemento classico del genere: la presentazione del piano. La rapina non ci viene presentata prima. Non vediamo Tony spiegare il piano ai suoi compagni (e a noi) ma vediamo il piano messo in atto, in silenzio, un pezzetto alla volta.
"Rififi" è un magnifico gangster movie. Un bianco e nero splendidamente fotografato che ha fatto scuola. Un film ben costruito, dal buon ritmo, che fino alla fine non ti lascia un momento per distrarti.

giovedì 23 aprile 2009

"Il servo" di Joseph Losey


Il servo, secondo l'etimologia della parola, significa "colui che porta beneficio". Mai definizione risulta così fuorviante come in questo caso, chiaramente se relazionata all'opera di Joseph Losey "The Servant". In questo contesto, il servo, assume un connotato diametralmente opposto. Si avvicina, infatti, di più ad un virus, ad un portatore sano di malvagità, di inganno che lentamente si insinua nella vita del giovane nobile e la infetta finendo per impossessarsi del suo volere e ribaltando i ruoli.
Non si può parlare de "Il servo" senza parlare della sceneggiatura firmata dal drammaturgo inglese, maestro dell'assurdo, Harold Pinter. Tra tutte le sceneggiature cinematografiche firmate da Pinter questa è probabilmente quella nella quale si percepisce maggiormente la sua impronta. Magistrale la costruzione dei personaggi che attraverso dialoghi pungenti e intelligenti ci delinea due figure, quella del servo e del nobile, chiare, classiche, quasi scontate, ma che nello stesso tempo presentano qualcosa di misterioso. Soprattutto lui, il servo, ha qualcosa che non quadra, qualcosa di insolito e presto quel mistero si svelerà in tutta la sua diavoleria.
Losey ci mostra spesso questa ambiguità dei personaggi con un gioco di specchi e riflessi continuo. Tutta la villa è piena di superfici riflettenti e i personaggi vengono così continuamente sdoppiati a sottolineare la loro doppia personalità.

"Il servo" è un film sociale se così possiamo dire, immagine di quella lotta di classe tra servo e padrone tanto cara a Marx, dove i ruoli si ribaltano, dove il servo prende in mano le redini del gioco e ribalta le carte in tavola, divenendo lui vero e proprio "padrone del suo padrone" piegandolo al proprio volere. Qui, questa analisi sociale e politica prende maggiormente i connotati di un gioco psicologico, che può anche essere visto come metafora del bene e del male, e di come è impossibile dividere il lato oscuro della mente umana da quello più pulito e limpido, così come Tony, il padrone di casa, non riuscirà a liberarsi di Hugo, nonostante il suo comportamento fuori dal normale. Tony è affascinato dal suo cameriere, quasi attratto in una relazione che profuma spesso di omosessualità.

Un film splendidamente orchestrato, girato spesso in pianisequenza che mettono in evidenzia i dialoghi di Pinter e le interpretazioni di Dirk Bogarde e James Fox. Intelligente il rapporto tra Hugo e la fidanzata del suo padrone, che sembra mettere a nudo un punto debole del servo che appare sempre spaventato dalla sua presenza. E' lei in queste scene a comandare, ad essere al centro della sequenza, ma la nostra attenzione resta su di lui, in attesa della sua prossima mossa, per capire il perchè di questa sua nuova facciata. E' davvero spaventato da lei o è tutto un trucco? Che cosa ci nasconde questo elegante ed efficente maggiordomo? E' o non è un "portatore di beneficio"?

lunedì 13 aprile 2009

"Testimonianza di un essere vivente" di Akira Kurosawa

pubblicato su "www.filmedvd.it"

E' difficile per noi occidentali del Duemila, comprendere quale possa essere stato il livello di paura negli anni'50, tra i giapponesi, verso la bomba atomica. Hiroshima e Nagasaki bruciano ancora e gli esperimenti nell'atollo di Bikini della bomba H stanno raggiungendo il loro culmine. In uno scenario del genere il terrore verso questa inumana arma di distruzione riempie i cuori di ogni giapponese, compreso quello di Akira Kurosawa, che da straordinario artista qual'è si sente in dovere, quasi in obbligo, di raccontare quella paura attraverso un film.
"Ikimono no kiroku", conosciuto anche come "Vivo nella paura", è la testimonianza di un uomo desideroso di trasferirsi con tutta la famiglia in Brasile per scampare alla minaccia atomica. La sua paura finirà per diventare definitiva follia.

Un film incentrato su una paura così legata a quegli anni, rischiava di non passare il verdetto del tempo, invece Kurosawa abilmente trasforma la paura per la bomba H, in una più universale ed eterna paura della morte realizzando così una vera testimonianza di un essere vivente, di un uomo che cerca disperatamente di sfuggire a quella invisibile minaccia che lo condanna. Una minaccia invisibile, ma esistente, d cui tutti hanno timore, ma che la maggior parte delle persone cerca di celare vivendo la vita quotidianamente senza pensieri nefasti.
A questo punto la sua storia diventa anche la nostra storia. E diventa anche la storia di un uomo che grida "Al lupo, al lupo" e che nessuno ascolta, anzi che alla fine tutti credono pazzo. Un uomo che non riesce a fuggire, che è costretto a rimanere dov'è, vivendo nella paura. Sì perchè "Testimonianza di un essere vivente" è anche un film sulla impossibilità di decidere della propria vita, perchè alla fine a decidere per te sono altri, i tuoi famigliari, oppure emeriti sconosciuti insigniti di tale onore e onere.
Ma in fondo è il destino di tutti. Alla morte non si può sfuggire.

C'è una interessante dichiarazione del maestro Kurosawa legata a questo film. Disse all'epoca che il suo primo pensiero era quello di fare un film satirico, ma che poi decise di cambiare registro perchè "come si può fare satira sulla bomba H?". Nel 1964 un altro maestro, Stanley Kubrick, realizza un film satirico sulla bomba H e la minaccia di una guerra atomica. Cosa significa che Kubrick aveva più spirito satirico di Kurosawa? Il genio del regista americano era più raffinato di quello del cineasta nipponico? La risposta forse va trovata proprio nelle differenti epoche in cui sono stati girati i film e dalla differente nazionalità dei due registi. Kurosawa, giapponese, vive sulla sua pelle e su quella dei suoi amici la paura dell'atomica. Hiroshima e Nagasaki sono troppo vicine nel tempo e nello spazio per non sentirne ancora il dolore. I superstiti portano ancora addosso i segni deformanti di quegli attacchi. La mancanza di umorismo è comprensibile. Kubrick osserva la guerra fredda con più...freddezza e distacco. Quella minaccia era ancora presente, ma meno pressante e soprattutto dettata dalle operazioni militari nelle "war room" di USA e URSS e non da veri bombardamenti. Insomma "satira è tragedia più tempo" come ci ricorda Lenny Bruce. Kubrick ha avuto tempo, Kurosawa solo la tragedia.

giovedì 5 marzo 2009

"La classe" di Laurent Cantet


Finalmente un film realistico sulla scuola. Un film che racconta il mondo scolastico e i giovani così come sono realmente, perchè è un film creato con i giovani, con gli studenti, raccogliendo la loro vita e le loro impressioni.
Finalmente un film vero dopo tutti i tentativi mal riusciti di registi che hanno cercato di mostrare la scuola come secondo loro è, ma che in realtà dentro una classe forse non ci sono mai stati.
Finalmente un film realistico e forse era meglio che non ci fosse.
E' ironica ovviamente la mia affermazione, perchè "Dentro i muri" questo il titolo originale del film è uno spaccato generazionale per nulla ottimistico, perchè per nulla ottimistico è il gran parte del mondo giovanile e scolastico attuale.
Ragazzi vuoti dentro, che non hanno nulla da raccontare (apparentemente, si spera) che non hanno nessuna intenzione di comprendere cosa gli sta attorno perchè non sanno chi sono. Questo è il problema principale, non sanno chi sono veramente. Vogliono essere come gli altri, vogliono essere semplicemente giovani credendo di seguire il loro modo di essere, la loro vera essenza, ma la realtà è che dentro di loro non regna la sicurezza di sapere quello che vogliono, ma in realta regna il caos, una serie di regole e impostazioni raccolte dalla realtà che gli fanno credere di avere la risposta al loro modo di vivere, ma che in realtà da raccontare non hanno nulla.

Colpa loro ma colpa, soprattuto, della realtà che li circonda e la scuola ha grandissima colpa non essendo mai stata in grado di insegnare la passione e l'interesse per il mondo e di non esser mai stata in grado di ascoltare veramente. Grammativa, trigonometria, letteratura, storia, scienze sono tutte materie inutili se insegnate a ragazzi che non hanno alcun interesse a comprenderle.
Che senso ha far leggere (in Italia) "I promessi sposi" o i "Malavoglia" a ragazzi che non hanno mai preso in mano un libro? La scuola dovrebbe insegnare la passione per la lettura, in quei 3 anni di scuola media e 5 di superiori. Dovrebbe far nascere in loro la voglia di prendere in mano un libro. Se poi si riesce in questo saranno loro da grandi a leggersi "I promessi sposi" se vorranno.
Che senso ha insegnare date, avvenimenti storici, personaggi a ragazzi che non sanno neanche chi sono loro stessi e cosa succede nella loro città e nella loro nazione?
La scuola deve insegnare la passione per le cose non le nozioni che nella vita non serviranno a nulla. Non me ne frega niente di ricordarmi vagamente alcuni frammenti della Divina Commedia, mi interessa aver imparato che cosa può esserci di bello nella letteratura e se mi interesserà prenderò in mano la Divina Commedia una volta cresciuto o altrimenti leggerò milioni di altri libri. Non me ne frega niente sapere quando è morto Napoleone, ma è importante che in me ci sia la curiosità di voler capire qualcosa di più del passato, andando a informarmi e magari poi a scoprire quando è morto Napoleone.

La scuola, e il film di Cantet lo racconta bene, non sa parlare ai ragazzi, non sa arrivare alle loro stesse lunghezze d'onda, ma si ferma a una visione della scuola che è una e basta costringendo i ragazzi ad adattarsi, ma la scuola non è una palestra di vita, è una palestra per noi stessi, per capire e comprendere noi stessi (studenti) e accrescerci. Non deve insegnarmi che devo seguire le regole, alzarmi in piedi quando entra un professore, stare composto ecc... queste cose le imparerò crescendo, ma non arriverò mai da nessun parte se imparo a stare seduto composto, ma non a guardarmi intorno e chiedermi cosa c'è di giusto o sbagliato nel mondo e cosa posso fare io per migliorarlo.

La scuola di oggi, in Francia come in Italia, insegna l'odio per la cultura e non l'amore per la passion e l'interesse. E "La classe" è un perfetto esempio di tutto questo. Un film pessimista, perchè reale, che si chiude sulla frase di una studentessa "Io non ho imparato nulla" che è emblematico dei giovani d'oggi e della società che gli adulti stanno modellando intorno a loro.

lunedì 2 marzo 2009

"The Reader" di Stephen Daldry


Si è arrivati a storcere un po' il naso, quando si sente parlare di un film legato in qualche modo all'Olocausto, ai campi di concentramento e dello stermineo ebreo. Per due motivi. Il primo, perchè ormai i film con questo tema sono tantissimi e cominciano anche a stancare, come se al mondo non vi fosse nessun'altro dramma umano da trattare. L'impressione è che si cerchi la commozione facile tra il pubblico, giocando la carta vincente della Shoah. L'altro motivo è che, proprio per la grande quantità di opere realizzate, ormai non ci sia più molto da dire sull'argomento, senza correre il rischio di ripetersi.
Per fortuna c'è ancora la possibilità, ogni tanto, di rispolverare il tema e riuscire anche a raccontare qualcosa di nuovo, andando a puntare la macchina da presa su una delle facce poco note di quel periodo. Lo ha fatto "Il bambino con il pigiama a righe" raccontandoci l'Olocausto con gli occhi innocenti di un bambino (a dire la verità non originalissimo come punto di vista, lo aveva già fatto "Jona che visse nella balena") e adesso ci pensa questo "The reader" firmato da Stephen Daldry.

"The reader" non è solo un film legato ai campi di concentramento, è anche una storia d'amore ed è soprattutto una storia di colpe e peccati commessi. L'aspetto più interessante del film, infatti, sta proprio in questo.
Hanna è colpevole. E' una ex-ss che ha causato la morte di centinaia di persone e per questo merita di essere condannata. Ma su di lei, è facile puntare il dito.
Mentre Michel, dentro di sè, porta la colpa di non aver fatto nulla, per salvare la donna che amava, dall'ergastolo. E quelle cassette inviatele in prigione, sono una ricerca di redenzione, un tentativo per cancellare, almeno un po', il senso di colpa. Perchè lei è sì un'assassina, ma non può dimenticare quell'altra faccia di Hanna, quella intima che lui ha conosciuto, quella timida di donna che si vergognava ad ammettere la sua analfabetizzazione e che amava così tanto la letteratura. Non può dimenticarlo e quindi cerca di espiare i propri peccati, ma senza successo. Su di lui pesa la colpa di aver causa la morte della donna che ama.

Dramma mondiale come l'olocausto, unito e contrapposto al dramma intimo e personale. La grande colpa di aver contribuito ad aver ucciso degli ebrei e l'altrettanto grande colpa di aver contribuito alla morte di una singola persona. L'amore può andare oltre a una colpa come quella di Hanna? Era giusto restare in silenzio e condannare un'assassina anche se questo finirà per distruggere gran parte della tua vita? Condannare una persona finendo per condannare se stessi.
E poi c'è la storia d'amore che occupa la prima parte del film. Una storia erotica che getta le basi per il conflitto che verrà a crearsi nel protagonista.

Ottima la prova di Kate Winslet, abile nel vestire il dolore di Hanna con la freddezza di una SS. Abbastanza insignificante Finnes, mentre c'è da chiedersi come mai non sia stato preso in considerazione dall'Academy per le nomination (l'Oscar sarebbe stato comunque eccessivo) David Kross che in alcuni momenti assomiglia drammaticamente al compianto Heather Ledger (lui sì, vincitore della statuetta).

lunedì 16 febbraio 2009

"Valzer con Bushir" di Ari Folman


(Trailer: http://www.youtube.com/watch?v=-8f7n2VYF04)

Ormai l'abbiamo capito. Il valico che divide il mondo del cinema in presa diretta e quello dei film d'animazione è stato superato, anzi possiamo quasi dire che non esiste più. Ormai l'animazione è divenuta un mezzo per raccontare e non un genere a sè stante, diversificato dal resto della cinematografia e limitato ad un pubblico di minorenni. In realtà di cartoni animati per adulti ce ne sono sempre stati, basti pensare a Ralph Bakshi, agli anime giapponesi o a Miyazaki. Ma negli ultimi anni, vuoi anche la diffusione delle tecnologie utilizzate, il muro che avvolgeva il mondo dell'animazione è crollato definitivamente. Poco importa che si tratti della iper-tecnologia della Disney/Pixar, della motion capture di Zemeckis, dei disegni black&white di Persepolis o degli attori dipinti dei film di Richard Linklater, la morale è che ora l'animazione viene vista per quella che effettivamente deve essere: una tecnica per dare maggior sfogo alla creatività e mezzo per raccontare storie che con la presa diretta sarebbe difficile narrare.

"Valzer con Bashir", firmato dall'ex soldato israeliano Ari Folman, non è solo un film sul massacro di Sabra e Shatila, ne un film sulla guerra civile libanese. E' un film sulla memoria collettiva e sul rapporto tra l'orrore e i nostri ricordi. Forse, più di tutto, la volontà di Folman è quella di dirci che la violenza è talmente disumana che il nostro cervello non la vuole neanche ricordare. La guerra non fa parte dell'uomo (o almeno non dovrebbe) tanto che la nostra mente la ripugna, la cancella, la nasconde. "Valzer con Bashir" è un film di suggestioni più che di fatti, proprio come i nostri ricordi che si fondono, si nascondono dietro altri ricordi, altri pensieri. Per questo motivo la scelta dell'animazione è azzeccatissima, perchè sarebbe stato impossibile raccontare quelle suggestioni con tale efficacia attraverso il “live action”. Il racconto si dipana come un documentario, in una struttura molto cinematografica, con una sorta di indagine atta a colmare i vuoti di memoria di Folman. I racconti che i suoi ex-commilitoni gli fanno non vanno tanto ad arricchire il racconto di quella guerra da un punto di vista strettamente storico-politico, ma ci raccontano loro stessi. Frammenti di vita tra i mortai, storie di sogni, desideri, paure. Storie personali che ci riportano le assurdità, le paure e gli incubi di ogni conflitto bellico.

Il limite del film però rischia di essere proprio questo. Se da un lato è giusto che Folman, da ex soldato israeliano racconti, e possa raccontare, quei giorni solo dal punto di vista israeliano, dall'altro questo finisce per dare poco respiro al film, che rischia di apparire solo come un omaggio ai suoi ex-compagni, una rimpatriata per ricordare quei brutti tempi, ma senza dire nulla di più sulla guerra o quel particolare conflitto. Anche quando nel finale Folman si concentra maggiormente sul massacro vero e proprio, non aggiunge molto di più a quello che già si sapeva. Resta quello che è, un ricordo personale, anzi una serie di piccoli ricordi personali, che uniti insieme regalano uno sguardo limitato sugli scontri e i massacri, senza approfondirli più di tanto.

Splendida l'animazione, che fonde insieme la grafica 3D, il disegno classico e l'animazione Flash. Animazione supportata da una musica a tratti punk rock che ben si amalgama con quelle immagini dai contrasti forti e dai colori vivi. Un buon esperimento che forse avrebbe avuto bisogno di maggior coraggio e un più ampio respiro.

venerdì 13 febbraio 2009

"Star Wars" di George Lucas - (guest directors Irvin Kershner & Richard Marquand)


“La Vendetta dei Sith” (ROTS) ha rivoluzionato Star Wars. Dal 19 Maggio 2005 e per la prima volta da quando uomini, donne e bambini di tutto il mondo si appassionarono alle storie di Luke Skywalker, Han Solo, R2-D2, Darth Vader e via dicendo, le parole Star Wars hanno un significato ben preciso. Non indicano più un singolo film, così come accadeva nel 1977 e nemmeno una singola trilogia. Oggi, e per la prima volta, Star Wars (cinematograficamente parlando) è il nome di un unico film di 13 ore. Questo che lo vogliate o no. Star Wars (o Guerre Stellari che dir si voglia) sono le due paroline magiche per indicare una straordinaria epopea unica nel suo genere che mai ha avuto e probabilmente mai avrà rivali. E questo grazie a ROTS e ai suoi due predecessori. Come dicevo all’inizio, il III episodio della saga ha rivoluzionato (ma forse è meglio dire ampliato) la potenza della Vecchia Trilogia (VT) e dato maggior importanza a “La Minaccia Fantasma” (TPM) e “L’Attacco Dei Cloni” (AOTC). A partire dai personaggi della VT che ora possono essere visti sotto una luce nuova che sicuramente risplende con maggiore potenza rispetto a prima.

Uno di questi è Palpatine che sicuramente, tra tutti i protagonisti della saga, è quello che grazie alla narrazione dell’inizio della storia ci ha guadagnato di più. Il suo spessore caratteriale, la sua importanza e soprattutto la sua malvagità sono aumentati drasticamente. Infatti con una visione di Star Wars limitata alla sola Trilogia classica c’eravamo fatti un’idea sbagliata dell’Imperatore. Per prima cosa non lo ritenevamo il “cattivo” di Guerre Stellari, ruolo che invece andava a Darth Vader, ma era semplicemente una figura di fondo (per quanto importante). Di lui sapevamo che era il Maestro di Vader, che era sicuramente potente e che aveva la classica ambizione di conquistare il mondo, pardon la Galassia. Adesso, con una visione completa della storia ci rendiamo conto che Palpatine è molto più malvagio, subdolo e diabolico di quello che pensavamo. Da “La Minaccia Fantasma” in poi possiamo assistere a tutte le sue mosse per raggiungere quella poltrona d’Imperatore su cui siederà ne la VT. Scopriamo così che Palpatine ha l’abilità di giocare a suo piacimento con i sentimenti e con il dolore delle persone che lo circondano, dalle quali si presenta come un amico, un consigliere, un mentore. Basti pensare a quello che dice Anakin in suo favore quando Obi-Wan gli svela la decisione del Consiglio di spiarlo. Organizza sotto le sembianze di Darth Sidious una invasione su Naboo (il suo pianeta natale) al solo scopo di sfruttare l’amore e l’attaccamento che la regina quattordicenne Padmé Amidala prova nei confronti del suo popolo per convincerla a spodestare Valorum dalla sua carica di Cancelliere Supremo ovviamente per occupare lui stesso quella poltrona. Poltrona che gli permetterà di controllare il Senato, la Giustizia e perfino il Consiglio dei Jedi. Fa scoppiare una guerra galattica semplicemente per avere una “scusa” per creare quell’esercito di Cloni di cui avrà bisogno per conquistare la Galassia e distruggere finalmente i Jedi. Nella sua doppia veste di Cancelliere saggio, leale, dai buoni principi di pace da una parte e di signore dei Sith, Darth Sidiuos (la sua vera identità) dall’altra, è a capo di una diabolica macchinazione per raggiungere il Dominio Totale, approfittando di ogni minima possibilità per sfruttare sia i “buoni” che i “cattivi”. Perché Palpatine ha la caratteristica di essere un cattivo assoluto in grado di ingannare anche quei characters che riteniamo siano suoi alleati (o almeno lo credono loro) ma che in realtà sono anch’essi pedine di quella enorme partita a scacchi che è la salita al potere: come il viceré della Federazione del Commercio o il Conte Dooku. La dimostrazione che sia Palpatine il vero “Cattivo” della Saga e non Darth Vader l’abbiamo dal fatto che con questa sua straordinaria abilità di manipolare le menti altrui e d’intrecciare sordidi complotti, riesce ad ingannare perfino Anakin Skywalker, colui che ritenevamo l’antagonista di Star Wars. Detto questo sembrerebbe di avere a che fare con un uomo estremamente astuto e diabolico ma che preferisce lasciare agli altri il lavoro sporco. Sbagliato! Infatti, se tutto questo non bastasse Palpatine/Sidious è perfino un potente guerriero, sia nel combattimento con le spade laser che con i poteri del Lato Oscuro della Forza e in “La Vendetta Dei Sith” ce ne da ampia dimostrazione liberandosi facilmente dei Jedi che sono venuti ad arrestarlo (e stessa fine avrebbe fatto anche Windu se non fosse che gli serviva vivo) e sconfiggendo il più potente Maestro Jedi, Yoda. Insomma Palpatine è un Cattivo a 360°, subdolo, meschino, malvagio e potente. Un cattivo perfetto, forse il più completo e diabolico della storia del cinema. Un cattivo che senza la Nuova Trilogia (NT) rischiavamo di perdere. E ora guarderemo l’Imperatore degli episodi V e VI in modo diverso, consci delle sue reali e diaboliche capacità.

Come dicevo all’inizio ROTS e tutta la trilogia iniziale di Star Wars hanno il merito di aver aumentato di spessore e profondità alcuni personaggi della Trilogia Classica. I loro comportamenti e le loro azioni hanno assunto una maggiore comprensione e un più profondo significato. Uno dei personaggi che è stato maggiormente sviluppato è sicuramente Obi-Wan Kenobi. Nella VT il nostro aveva il compito, insieme a Yoda, di fare da guida a Luke (e a noi stessi) tra le meraviglie e i pericoli che il potere della Forza presenta. È proprio su questo aspetto “dell’insegnamento” che mi voglio soffermare. C’è un motivo importante, che affonda le sue radici nel passato, che porta Kenobi ad interessarsi alla crescita di Luke e al suo tirocinio da Jedi: la Sofferenza. Obi-Wan Kenobi ha sofferto. Ha sofferto quando Anakin, suo allievo, suo migliore amico, suo “fratello” si è volto definitivamente al Male. E lo sappiamo guardando quella bellissima scena in cui Vader scivola nella lava e Obi-Wan urla tutto il suo dolore. Ha sofferto perché è stato proprio Anakin, colui che doveva portare equilibrio nella Forza a gettarla invece nelle tenebre. E sono dolore e sofferenza i motivi che lo spingono a non svelare del tutto la verità a Luke sulla sorte del padre. Non è un bugiardo, come si potrebbe pensare guardando la VT, ma come gli disse Yoda in ROTS dopo aver visto le registrazioni della sorveglianza, Anakin, l’Anakin che conosceva fin da quando era un ragazzino impaurito, è morto sopraffatto dal Lord Sith Darth Vader. È per questi motivi, e non per un semplice legame ai principi di Jedi, che Kenobi vuole che Luke sia fedele al Lato Chiaro della Forza. Non vuole rischiare di perdere anche lui. Di fallire di nuovo.
Un altro aspetto di Obi-Wan che è stato decisamente enfatizzato dalla NT è il suo essere un Cavaliere Jedi, un potente Cavaliere Jedi. E’ lui a sconfiggere Darth Maul, il Generale Grievous, a mettere in fuga Jango Fett e per poco, a non uccidere l’Eletto (ma d’altro canto era destino che finisse così). È Obi-Wan a regalarci i duelli con le spade laser più belli che si erano mai visti. Mi viene da chiedermi: ma come potevamo essere fan dei Jedi o dei Sith se non avevamo mai visto un combattimento come quello in TPM? La Minaccia Fantasma, L’Attacco dei Cloni e La Vendetta Dei Sith ci mostrano un nuovo Obi-Wan Kenobi, estremamente umano nelle sue debolezze e nei suoi punti di forza. Un uomo che ha avuto (oppure se lo è cercato) un compito tra i più difficili che potevano essere assegnati a un Jedi: addestrare colui che porterà equilibrio nella Forza. Obi-Wan è un guerriero forte e saggio, leale e coraggioso ed è indubbio che adesso, quando lo guarderemo in Una Nuova Speranza e ne Il Ritorno Dello Jedi parlare con Luke del passato e di Anakin, non potremo non pensare alle sue vicende da Cavaliere, ai suoi occhi pieni di lacrime mentre incrociano quelli di Vader morente (per lui comunque resta sempre Anakin) e capiremmo perché non creda che ci sia ancora del buono in Vader dopo che lo ha visto sterminare bambini, strangolare Padmé e urlargli addosso “Ti odio!”. Sarà anche più facile comprendere il suo atteggiamento di quasi rassegnazione immediata dopo che Luke in ROTJ gli dice che non può uccidere suo padre “Allora l’Imperatore ha già vinto. Tu eri la nostra unica speranza.” Capisce quello che Luke sta provando. Perché è lo stesso sentimento che provò lui al solo pensiero di affrontare e uccidere Anakin.
Quando comparve per la prima volta nell’Impero Colpisce Ancora, parlando in quel suo modo strano non avremmo scommesso un centesimo su di lui. Quando, sempre nello stesso episodio sollevò con la sola forza interiore un X-Wing dalla palude pensammo “Beh, forse un po’ più di fiducia se la merita, questo piccoletto.” In ogni modo, nella Vecchia Trilogia si fa fatica a pensare a Yoda come a un potente Maestro Jedi. Un guerriero che ha visto e ha partecipato alla Guerra dei Cloni, talmente potente (o fortunato) da essere l’unico Jedi a non morire per mano di qualcuno. Con la NT, ecco che anche Yoda ci viene mostrato per quello che è realmente. E allora mentre prima non capivamo del tutto se Yoda in TESB ci era o ci faceva, ora sorridiamo divertiti e più consapevoli quando lo vediamo prendersi gioco di Luke su Dagobah. Sappiamo qual è la vera forza del Maestro e questo ci fa interessare ancora di più alla vicenda di Luke. Yoda è saggio e potente, su questo non ci sono dubbi e ha aspettato questo momento (l’addestramento del giovane Skywalker) da molto tempo. Adesso, arrivati a 5/6 del film ci chiediamo se effettivamente c’era un reale motivo per sperare in Luke. Qualcuno si è messo a ridere e ha urlato all’assurdità (per non dire alla blasfemità) quando vide ne AOTC Yoda accendere la sua spada laser verde e saltellando combattere contro Dooku. Pensare a un combattimento tra due guerrieri che hanno più di un metro e mezzo di differenza non era certo facile e ritengo che questa scelta (tra l’altro era l’unica possibile) ci dia finalmente un immagine di Yoda di grande Maestro in grado di utilizzare la Forza e di mostrare il suo potere solo quando estremamente necessario, facendo credere ai suoi avversari (come fece con Luke) che sia l’altezza o la forza fisica quelle che contano maggiormente, per poi invece dimostrare tutta la sua vera Forza. Grazie a la Nuova Trilogia siamo entrati in profonda conoscenza non solo di Yoda e Obi-Wan, ma di tutto l’ordine dei Cavalieri Jedi e dei loro rivali di sempre, i Sith. È innegabile che con una visione di Star Wars ristretta all’ultima metà, si sa poco o nulla sui Jedi, sul loro ruolo, sul loro prestigio e contemporaneamente sulla malvagità e sul pericolo presentato dai Sith.
Così come George Lucas ha fatto per Star Wars, anch’io per parlare di Anakin Skywalker voglio partire dalla fine. Alzi la mano chi non ritenga che dopo la visione di ROTS, il momento della redenzione di Anakin non abbia assunto un importanza maggiore. La scena chiave di cui mi riferisco è ovviamente quella dell’omicidio di Mace Windu. È qui che il Cancelliere Palpatine porta a termine il suo piano di condurre Anakin al suo fianco. Per prima cosa rivela ad Anakin di essere lui l’oscuro signore dei Sith che stavano cercando e questo crea nel ragazzo un primo conflitto: comportarsi da Jedi e riferire tutto al Consiglio oppure seguire i suoi insegnamenti e salvare Padmé. Abbastanza sorprendentemente (per noi che conosciamo già tutto) Anakin sceglie di comportarsi da Jedi. Addirittura estrae la spada minacciando Palpatine. Così riferisce al Maestro Windu quello che ha scoperto e quest’ultimo, con altri tre Jedi e tenendo alla larga Anakin lo va ad arrestare. Questo è proprio quello che vuole Palpatine, che infatti è tranquillamente seduto in poltrona ad aspettare i Cavalieri. Ennesima dimostrazione di forza. Durante un velocissimo combattimento si libera subito con pochi rapidi fendenti dei tre Jedi e inizia a duellare con Windu. Nel frattempo Anakin è impegnato nel più duro combattimento che abbia mai affrontato. Quello contro se stesso. Un conflitto interiore che ci viene mostrato grazie a una bellissima scena di grande cinema come non se ne vedeva da tempo. Quella che vede Skywalker nella sala del Consiglio Jedi e in montaggio alternato Padmé a casa, con il sole che tramonta dietro i grattacieli di Coruscant tingendo di rosso il pianeta, il tutto accompagnato dal silenzio e da un leggero intervento in sottofondo di John Williams. È lì, poco prima di saltare a bordo dello speeder e raggiungere Palpatine che Anakin si rende conto che non può vivere senza Padmé e che ha bisogno del Cancelliere e dei poteri del Lato Oscuro. Arrivato nella sala del Cancelliere, Anakin si trova di fronte Windu e Palpatine in duello. Da una parte il cavaliere Jedi che più di tutti probabilmente simboleggia quella insicurezza e timore che il Consiglio (di cui è sempre più deluso) sente avere nei suoi confronti. E dall’altra quel nemico giurato che ha sempre promesso di combattere che però può avere con sé la chiave per cancellare per sempre le sue paure. In quella circostanza Anakin uccise Windu facendosi travolgere dai propri sentimenti e seguendo il Lato Oscuro. Arrivati alla fine del Film, ci ritroviamo ad assistere a una scena quasi identica. Palpatine, ormai Imperatore, sta colpendo a morte Luke con le saette e Darth Vader/Anakin assiste alla scena. Che cosa farà ora? È veramente passato del tutto al Lato Oscuro oppure quel poco di buono di cui parlavano Luke e Padmè è veramente ancora dentro di lui? E qui avviene la sua redenzione. Vader solleva l’Imperatore e lo scaraventa nel baratro. Padmè aveva ragione: Anakin non era stato ucciso del tutto da Vader, qualcosa di lui viveva ancora. Certo tutto questo lo intuivamo già guardando solo la VT ma ora tutto ha assunto un peso maggiore e la redenzione, quel gesto che ha portato equilibrio nella Forza è diventato ancora più liberatorio e importante. Leggendo alcune recensioni ho notato che qualcuno è rimasto un po’ sconcertato dal fatto che il motivo che porta Anakin a divenire Darth Vader sia l’Amore. In realtà non è l’amore in sé, ma la Paura. E qui “La Minaccia Fantasma” gioca un ruolo importante. Infatti è la paura di perdere la donna che ama, la paura di soffrire nuovamente, così come aveva sofferto anni prima per la morte della madre e in parte per quella di Qui-Gon Jin a farlo crollare. E non dite che Yoda non lo aveva avvertito. Nel I episodio infatti è il Maestro Jedi ad avvertire molta paura nel giovane e a metterlo (e a metterci) in guardia su essa: “Paura di perderla tu hai (riferendosi alla madre)” “Che c’entra questo con tutto il resto?” “Con tutto c’entra. La paura è la via per il Lato Oscuro. La Paura conduce all’ira, l’ira all’odio, l’odio conduce alla sofferenza. Io sento molta paura in te.” Ed è proprio quella paura di cui parlava Yoda che creerà il conflitto in Anakin e lo farà cadere nella trappola di Palpatine. Perché Palpatine gioca anche con i sentimenti del suo allievo. Sfrutta questa sua paura di soffrire a suo vantaggio facendogli credere che tramite il Lato Oscuro possa trovare il modo per strappare Padmé alla morte. In questo modo porta a termine il suo piano di distruggere i Jedi e di avere al suo fianco il più potente guerriero esistente. Il Darth Vader che conoscevamo nella VT quindi era solo un frammento di quello straordinario personaggio che è a tutti gli effetti il protagonista di Star Wars. Una profondità caratteriale e psicologica che non conoscevamo e che grazie ai primi tre episodi abbiamo per fortuna scoperto.

Ma le vicende di Anakin e il suo precipitare nel baratro, quasi fosse un angelo caduto, hanno permesso di dare maggior potenza e risalto anche a suo figlio, Luke Skywalker. Con grande abilità, infatti, Lucas getta Luke nelle stesse situazioni in cui si era trovato suo padre in passato. In questo modo ci troviamo a chiederci se anche Luke cederà al Lato Oscuro come Anakin. Entrambi hanno subito dolorose perdite, hanno lasciato Tatooine per “volare verso il cielo”, sono entrambi abili piloti e tutti e due perdono una mano durante uno scontro con le spade laser. E quell’arto mozzato ci porterà a chiederci superato metà Film se anche Luke sia destinato a seguire le orme del padre. Parallelismo tra i due che viene sottolineato anche dalla somiglianza delle loro vesti che sono entrambe nere e con un guanto dello stesso colore a coprire la mano meccanica. Luke cederà anche lui e il dubbio ci rimarrà anche fino alla fine di Sesto capitolo quando Luke si fa spingere dall’odio e attacca Vader, mozzandogli un braccio e urleremmo “No, non lo fare!!” Ci verrà da pensare che Palpatine abbia vinto ancora (perché ora sappiamo di cosa è capace l’Imperatore). Pensiamo che non c’è più niente da fare. Ma quando Luke spegnerà e getterà via la sua lightsaber dopo aver atterrato Vader e confermato la sua voglia di stare alla larga dal Lato Oscuro un grido di esultanza si alzerà dal pubblico che avrà appena terminato di godersi per intero Star Wars.

Per concludere, George Lucas ha regalato a noi e soprattutto alle generazioni future un epopea da altri tempi. L’unica avventura cinematografica che può essere messa a livello di capolavori immortali della letteratura del passato come l’Illiade o La Divina Commedia. Raccontandoci una favola piena di dramma, avventura, comicità, fantasia, sogni e amore. Una storia che è arrivato il momento di non vedere più come due singole trilogie da confrontare tra loro, o come 6 episodi da inserire in una classifica di gradimento, ma come quello che è realmente: un unico magico film. Un'unica straordinaria avventura che conduce grandi e piccoli in mondi lontani e fantastici a seguire le storie di personaggi senza tempo. E quando dal 19 Maggio 2005 il cerchio è stato chiuso, Star Wars è diventato più potente che mai.

domenica 1 febbraio 2009

"Il dubbio" di John Patrick Shanley


Teatro e cinema. Un binomio estremamente interessante e altrettanto, estremamente, pericoloso. Se manipolato male può risultare una lama a doppio taglio.
Teatro e cinema sono due arti che da sempre hanno battuto strade simili e a dire il vero, la settima arte nei suoi primi anni di vita aveva molto da assimilare dal teatro. I primi film infatti erano strutturati dai cosidetti tableau, ovvero lunghe scene senza stacchi (oggi li chiameremmo piani sequenza) che riprendevano gli attori recitare davanti a un fondale che riproduceva la location in cui si svolgeva la scena. Un po' quello che succede oggi nelle sit-com televisive, nelle quali la macchina da presa occupa la quarta parete di una stanza e gli attori si muovono come se fossero a teatro davanti a un pubblico.
Gli attori stessi di quei primi film venivano direttamente dal teatro, essendo fino a quel momento l'unica arte incentrata sulla rappresentazione.

Oggi il teatro si lega al cinema sotto vari punti di vista. A volte perchè i drammaturghi decidono di passare dai copioni teatrali alle sceneggiature cinematografiche, come Harold Pinter o David Mamet. A volte perchè le loro piece teatrali hanno talmente successo sulle assi di un teatro che si cerca di replicare tale successo anche sul grande schermo. Altre volte ancora è lo stile di un regista e la storia che vuole raccontare che si avvicina a una visione teatrale della messa in scena (da fan di Woody Allen penso ad esempio a "Settembre" o in generale ai film di Peter Greenaway).

Ovviamente teatro e cinema hanno forme e linguaggi diversi (anche se non totalmente diversi) ed è quindi necessario per chi scrive, dirige e recita, adattarsi al diverso mezzo comunicativo. Il lavoro svolto da John Patrick Shanley, vincitore del Premio Pulitzer proprio per il suo testo teatrale "Doubt", denota questo cambio di registro e mostra come l'autore, anche regista del film, abbia saputo lavorare bene anche con il mezzo cinema. In più di una occasione, Shanley ha utilizzato le immagini come mezzo narrativo, elemento caratteristico più del cinema che del teatro, soprattutto per delineare i personaggi. Come durante la scena della cena che vede le suore sedute intorno al tavolo. La figura di Sorella Aloysius viene messa a fuoco da due inquadrature, quella che la vedono aiutare una sorella passandogli la posata e quando, solamente con lo sguardo, rimprovera Sorella James di non sputare il boccone. Due inquadrature mute ma che ci permettono di conoscere qualcosa di piùdel carattere della preside. O quella folata di vento (il dubbio) a termine della cena, che smuove la tovaglia, simboleggiando che il dubbio, da quel momento si è insinuato nella sua vita. O come quando Padre Flynn passa sotto una vetrata che riproduce un occhio, l'occhio di Dio, come se il prete avesse paura di esser osservato e di non poter sfuggire al suo Signore. Ha qualcosa da nascondere?
Ecco Shanley è abile a istaurare il dubbio anche nello spettatore, quasi ci trovassimo difronte a un film giallo per scoprire chi è il colpevole e se un colpevole esiste davvero. Non lo sapremo mai, ci resterà per sempre il dubbio.

Ma chiaramente in "Il dubbio" resta forte l'impronta teatrale e in una scena in particolare, tale impronta si sposa magistralmente con il cinema. La scena è quella del primo incontro tra Padre Flynn, Sorella Aloysius e Sorella James. Al di là della recitazione dei due più bravi attori viventi in circolazione, il lavoro di Shanley è splendido e mi ricorda alcune sequenze dei film di Orson Welles dove la storia viene raccontata anche attraverso i movimenti degli attori e la loro posizione sul set.

La scena in questione si divide in tre parti, ognuna delle quali vede passare di mano in mano lo scettro del comando, rappresentato simbolicamente dalla poltrona della scrivania. La poltrona del Principale.
In un primo momento, nonostante quello sia l'ufficio di Sorella Aloysius, a sedersi alla scrivania è Padre Flynn, a sottolineare subito quale sia la gerarchia in campo. La preside della scuola comincia a parlare della recita di Natale, come pretesto per arrivare a introdurre il tema a lei caro: il rapporto di Padre Flynn con lo studente Donald Miller. In questo momento è quindi il prete a tenere le redini del gioco e infatti è lui a decidere quali saranno le canzoni da cantare alla recita.
La seconda parte vede l'inversione dei ruoli. I due si scambiano di posto, e mentre Flynn chiude la persiana, quasi volesse cancellare ogni possibilità di chiarezza, è Suor Aloysius a sedersi alla scrivania e a prendere in mano lo scettro del comando. Ora è lei che mette in imbarazzo il suo rivale accusandolo di aver avuto un comportamento ambiguo con uno degli studenti.
Shanley utilizza magistralmente lo spazio scenico per orchestrare il livello drammatico, intrecciando un dialogo che altro non è che un gioco del gatto col topo con continui cambi di ruolo. L'utilizzo della luce, del montaggio e delle inquadrature aiuta a dare alla scena il giusto pathos e livello drammatico, che aumenta sempre di più fino alla terza parte, quella della resa dei conti, o meglio delle apparenti chiarificazioni. Padre Flynn mette in campo la sua versione dei fatti, che convince Sorella James ma non la preside. Ora sono tutti in piedi, nessuno siede sulla poltrona, come se a questo punto tutti fossero allo stesso livello. Sorella James prova a chiedere ancora se può servire del the come gesto pacificatore, ma ormai la battaglia tra i due suoi superiori è iniziata e questa splendida scena ne ha dato il via.
I dialoghi sono ricchi di elementi che caratterizzano le battute e sottolineano le diverse caratteristiche dei personaggi e l'utilizzo che il regista fa della macchina da presa, dimostra quanto sia in grado di giocare con il mezzo filmico andando al di là di quello che è il suo testo teatrale.
Un film magnifico, diretto e recitato in maniera sublime. Un film verbale, dallo spiccato senso teatrale, ma che riesce a staccarsi anche dalle sue origini, sposandosi perfettamente con la macchina cinema.

CLICCA QUI PER VEDERE LA SCENA SOPRA DESCRITTA

"Sette anime" di Gabriele Muccino


Fa un po' tristezza pensare che l'emblema del cinema italiano all'estero sia Gabriele Muccino. Fa tristezza perchè il regista romano incarna quell'aspetto del fare cinema nostrano fatto di ovvietà, clichè, buoni sentimenti e facili agganci sul pubblico, ma assolutamente privo di originalità, coraggio e arte. "L'ultimo bacio" e "Ricrodati di me" raccontano i soliti drammi familiari, banali e già visti, con dialoghi scontanti e i classici elementi per far breccia nello spettatore, come le scene dal forte pathos fatte di urla, lacrime, corse a perdifiato (preferibilmente sotto la pioggia) e via dicendo. Senza dimenticare le squallide fotografie generazionali dei trent'enni di oggi.
Anche il primo film a Hollywood di Muccino è risultato un lavoro ruffiano, senza rischi, e per questo sicuro che non avrebbe avuto nessuna difficoltà a incassare grosse cifre al botteghino. Buoni sentimenti, lacrima facile, la lotta testarda di uomo comune per difendere suo figlio e il suo futuro.

Non colpisce quindi più di tanto che anche "Sette anime", traduzione riveduta e corretta dell'originale "Sette Libbre" di shakespiriana memoria, sia un prodotto confezionato ad hoc per far breccia nel cuore della massa. Primi piani stretti, sguardo perennemente imbronciato di Will Smith, corse a perdifiato (toh, guarda, la pioggia), dolore, amori interrotti e malattie terminali.
La struttura narrativa che mantiene fino all'ultimo il segreto sulle motivazioni che spingono il protagonista ad aiutare il prossimo, avrebbe l'intento di portare lo spettatore a seguire fino alla fine la storia, come se si trattasse di un giallo da risolvere e probabilmente a infondere quel briciolo di originalità alla pellicola. L'obiettivo però fallisce miseramente perchè in realtà l'arcano viene svelato a metà film non appena si vede l'articolo di giornale che riporta l'incidente nel quale sono morte 7 persone. Quindi anche quello che poteva essere un elemento di interesse per il film, finisce per essere mal gestito e anzi controproducente. Ma è tutta la sceneggiatura ad apparire debole. Apparte i già ripetuti clichè del genere drammatico a cui si aggiunge la classica storia d'amore impossibile (con tanto di scena a letto dove i due protagonisti si raccontano desideri e sogni di un loro futuro che sanno non arriverà mai) si aggiungono dialoghi piatti, scontati e schifosamente melensi.

Insomma si salva ben poco di questo polpettone strappa cuore. Forse l'unica nota positiva va a Rosario Dawson, anche se il suo personaggio e la piattezza della sceneggiatura non la aiutano più di tanto a distaccarsi dalla banalità che riempie l'intero film. Da bocciare invece Smith in una delle più ruffiane interpretazioni della sua carriera, sempre alla ricerca dello sguardo più sofferente e addolorato che possiede.
E la regia di Muccino si conferma per quello che è. Certo gli va dato merito di essere arrivato dove tutti i registi (e non solo) europei sperano di arrivare un giorno, e gli va dato merito di aver adattato la sua regia agli stilemi del cinema a stelle e strisce. Peccato però che tutto questo finisca per dare risultati mediocri e non è un caso che negli States "Seven Pounds" sia stato definito il film più brutto del 2008.
Un film fatto unicamente per un pubblico dalla lacrima facile che non ricerca nulla di più da un film.

martedì 20 gennaio 2009

"L'ora del lupo" di Ingmar Bergman

pubblicato su www.filmedvd.it

Il cinema di Bergman è stato sempre pervaso di simbolismi. Anche nelle sue opere dalla narrazione più classica, spesso si nascondono metafore, simboli, illusioni nascoste. Basti pensare a "Sussurri e grida", "Il posto delle fragole", "La fontana della vergine", "Persona", "Il volto" e via dicendo.
"L'ora del lupo" è però probabilmente il suo film più criptico, quasi surrealista, non solo nella fotografia e nello stile che chiaramente si riaggancia all'espressionismo tedesco, ma proprio nell'approccio al racconto, alla narrazione, ai personaggi.
Johan è un pittore tormentato dai suoi incubi, che vive quasi due vite contemporaneamente, quella reale che lo vede marito di Alma, giovane donna che tenta disperatamente di avvicinarsi al marito, e quella inreale popolata di creature fantastiche che distruggono lentamente la sua mente e che lo costringono a fare i conti con i fantasmi del passato. Demoni e spettri che in realtà non vediamo mai nelle loro "reali" sembianze. Johan li descrive alla moglie, dopo averli disegnati, ma quando li incontriamo sembrano quasi usciti da un film di Bunuel, con la loro aria da borghesi schifosi e nauseanti, finti e diabolicamente penetranti.
Ed eccola qua la surrealità del film. La mente sconvolta di Johan, ovvero il castello all'interno del quale lui e la moglie vengono invitati a cena e i suoi incubi, i suoi demoni, ovvero gli abitanti del castello.
E' significativa la battuta finale pronunciata da Von Sydow: "Grazie a voi ho raggiunto il limite. Lo specchio si è spezzato ma cosa riflettono i frantumi?" Grazie a quegli incubi, Johan ha raggiunto la fine delle sue ossessioni, ne ha raggiunto l'apice, distruggendo se stesso, la sua vita, la sua mente. Ma qualcosa è rimasto tra i cocci dello specchio. Quei frammenti di ricordi, di amore, di pace che ogni tanto ritornano in superficie, ma per poco tempo, presto schiacciati dai tormenti inflitti dai suoi demoni.

"L'ora del lupo" è un film che di reale non ha nulla e a questo proposito sono interessanti i titoli di testa, che sopra ai consueti titori bianchi su sfondo nero, si sentono fuori campo le voci VERE del regista che prepara la scena di apertura con Liv Ullmann. Quasi come volesse ricordarci che quello a cui stiamo per assistere è un film, nient'altro che un film (qualcosa di analogo lo fece anche con la sua opera precedente "Persona"). Questo è un film insolito nella filmografia del regista svedese, un film autobiografico e decisamente tormentato, composto da prove attoriali splendide, da un ritmo lento e volutamente snervante, con i secondi che non passano mai, e da riprese a tratti sbalorditive.

La nota sul DVD recita "l'unico film horror di Ingmar Bergman". In realtà "L'ora del lupo" non è un film horror vero e proprio, ma se proprio volessimo catalogarlo potremmo definirlo più un noir. Non inteso come noir bogartiano, ma come viaggio nelle oscurità della mente umana. Un film a tratti difficle per la sua enigmaticità e follia, ma che è a tutti gli effetti capostipite di certo cinema moderno, quello di David Lynch su tutti.

"La bella scontrosa" di Jacques Rivette


L'Arte è verità.

giovedì 8 gennaio 2009

"L'ospite inatteso" di Thomas McCarthy



Ci sono volte dove ti passa la voglia di andare al cinema, come quando ti ritrovi in sala accanto a qualche idiota che non fa altro che parlare e ridere per tutto il film, come è capitato a me con "Come Dio comanda".
Altre volte invece, ringrazi te stesso di averlo fatto. Come quando in una piccola sala (grande quanto il mio salotto di casa, alla faccia dello schermo panoramico) ti accomodi sulla poltrona e ti godi un piccolo gioiello come questo "L'ospite inatteso". Un film piccolo, come budget, come distribuzione e ho puara anche come incassi, ma grande nella storia, nei sentimenti, nella delicatezza e nel ritmo (in tutti i sensi).

Io adoro i film inventrati su un incontro e un rapporto che nasce e finisce in breve tempo ma che lascia nel protagonista qualcosa di importante. Non quelle storie che sono "per sempre" fatte di amori o amicizie che durano in eterno. Ma due (o più) persone che si incrociano in un momento della loro vita e che poi si perdono dopo essersi scambiate un po' della loro vita. "Once" era un film di questi. Una storia di amicizia (o forse amore) che nasce e poi finisce, serenamente, ma che segna un momento importante nell'esistenza dei due protagonisti. Un ricordo da conservare, un insegnamento da custodire.

Ne "L'ospite inatteso" accade proprio questo. Due persone, molto diverse l'una dall'altra che per un caso fortuito si incontrano e la loro vita cambia. Walter è infelice della sua vita, del suo lavoro, della sua mancanza di emozioni. L'incontro con il musicista Tarek lo cambierà, anche dopo che i due si separeranno per sempre. Ma "L'ospite inatteso" è anche e soprattutto un film "sociale", una originale e garbata storia multietnica, sul rispetto e la convivenza, sulle malate leggi della nostra società che calpestano la vita delle persone. Leggi scritte dalla paura stessa, la paura del diverso. Walter attraverso la musica entra nella vita di queste persone e grazie a loro cambia il proprio punto di vista sul mondo, cambia se stesso, a ritmo di jumbe. Come la scena del parco, perfettamente orchestrata in fase di sceneggiatura, che unisce insieme sotto un unico ritmo, sotto un unico battito realtà diverse, legate insieme dalla voglia di suonare, di stare...insieme. Ma le stesse persone che si siedono ai tavoli dei locali jazz per ascoltare Tarek suonare sono le stesse che non lo vogliono per strada, che hanno paura di lui, in metropolitana, perchè diverso, perchè c'è paura anche di un tamburo chiuso in una custodia.

McCarthy realizza una storia leggera, ma emozionante allo stesso tempo, equilibrata e perfettamente scritta, dove la regia resta garbata, senza darsi delle "arie", mettendosi al servizio dello script e della recitazione degli attori.

mercoledì 7 gennaio 2009

"Non pensarci" di Gianni Zanasi



Qual'è il tema più abusato in assoluto dal cinema italiano? Esatto, la famiglia.
Si può ancora parlare di famiglia senza cadere nei soliti clichè e con un po' di originalità? Sì, è possibile. Come ci ha insegnato Gianni Zanasi con la sua divertente commedia.
"Non pensarci" comunque è un film che va oltre il tema della famiglia. Seguendo Stefano, (chitarrista punk che sta attraversando un momento di crisi, sia creativa che sentimentale) da Roma alla sua cittadina natale, noi buttiamo un occhio non solo alla famiglia, ma più in generale alle convenzioni che regolano la nostra società.
La commedia è perfetta per fare questo. Vedere Stefano (un sempre fantastico Valerio Mastandrea) osservare meravigliato le auto che non superano neanche per sbaglio il limite dei 50 orari fa veramente venir voglia di prendere l'auto e fare le sgommate nel parcheggio o dire ai tuoi genitori che la loro figlia e lesbica, così solo per scioccarli, per rompere un po' quel guscio di finta perfezione, di finta morale che ricopre la città. Sì perchè in realtà è tutto finto.
L'ipocrisia della nostra società, dove non si parla di divorzio, di tradimento, di regole infrante, di omosessualità, di famiglia non convenzionale, di lavoro non sicuro (vabbè di questo si parla anche se non si vorrebbe). E infatti, tua madre ha messo le corna a tuo padre, anzi a quello che tu credi essere tuo padre ma non lo è. L'azienda di famiglia, quel lavoro solido che tuo fratello porta a vanti fa invece acqua da tutte le parti. E tua sorella....vabbè lei non è lesbica, ma speravi che lo fosse. Alla fine Stefano, si rende conto che quella perfezione quasi snervante che pensava di ritrovare a casa, non esiste. A lui, che in paese chiedono se si è disintossicato (perchè partire per Roma sperando di fare musica, senza famiglia, senza una scrivania per loro è come drogarsi), forse la vita va quasi meglio che agli altri. alla faccia dl loro perbenismo del cazzo.
Insomma non pensarci, manda a fanculo tutto e buttati. E se poi ti va male...c'è sempre la famiglia ad aspettarti. :-)

martedì 6 gennaio 2009

"Meduse" di Etgar Keret & Shira Geffen


A volte servono gli scrittori per ricordarci quanto il cinema sia soprattutto narrazione per immagini. E paradossalmente sono proprio due scrittori, artigiani della parola, a raccontarci per immagini, con la chiave del surrealismo, la nostra incapacità a comunicare.
Etgar Keret e Shira Geffen, al loro debutto dietro la macchina da presa, intrecciano le storie di 3 donne ognuna delle quali incarna un differente aspetto (o faccia) dell'isolamento.

Una ex-cameriera infelice della propria vita, che cerca se stessa...attraverso se stessa, attraverso il legame con la sua infanzia, con i suoi ricordi, grazie all'incontro magico con una bambina (se stessa?) uscita dal mare (dalla vita, dal passato, dai ricordi, dal nostro inconscio).
Una badante filippina, incapace di comunicare, che cerca lavoro a Tel-Aviv, lontano da casa, lontano da quel figlio al quale non riesce a comprare il tanto desiderato giocattolo (guarda caso una nave, il mare che ritorna). La lontananza da casa, il legame con la propria terra e i propri affetti. Una distanza che appare impossibile da colmare, ma che presto si rivelerà possibile grazie al linguaggio dei sentimenti che rompe le barriere dialettiche.
E infine una neo sposa, costretta a letto da una gamba ingessata. L'unica che vive la solitudine anche in maniera fisica, impossibilitata a muoversi e che per questo, in gabbia nella sua camera d'albergo, affida i suoi pensieri alla carta, alla parola scritta. Lei il mare non riesce neanche a vederlo dalla finestra e così lo materializza nella sua poesia che si rivelerà poi perfetta lettera di addio per una suicida.

Le loro vite galleggiano in un mare immenso e sia che si sentano lontante dal mondo, dai loro cari o da loro stesse, queste tre donne cercano disperatamente di trovare un'ancora alla quale aggrapparsi per ridare un senso alla propria esistenza, per smetterla di sentirsi così in balia delle onde.
Siamo tutti meduse. Tutti noi ci lasciamo spingere dalla corrente, incapaci di governare il nostro moto nel mare e per questo finiamo con l'isolarci, con l'avere paura di ciò che ci circonda.

Un film piccolo, e come spesso accade universale, delicato e poetico. Allo stesso tempo realistico e surreale. Un film che come detto gioca grazie alle immagini e alle metafore per raccontarci una umanità forte e fragile in equal misura.
Un debutto sorprendente, vista anche l'origine artistica dei due registi, che da una nuova visione alle storie coralli, alle vicende che intrecciano più vite, più esistenze che finiscono per incontrarsi, sfiorarsi, scontrarsi tra loro. Questa volta le vite non si toccano mai e il filo rosso che li unisce è la solitudine. Un ottima sceneggiatura che equilibra bene il ritmo tra una storia e un'altra regalando personaggi che ci attirano, grazie anche a una buona dose di magia.

lunedì 5 gennaio 2009

"Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi


Basta! Non se ne può più di questi registi. Tutti alla ricerca del loro stile, desiderosi di lasciare il segno con qualcosa ad effetto. Effetto che spesso, anzi sempre, è sinonimo di noia. Film che non dicono nulla, fatti solo di lente inquadrature senza spirito, ostentando ancora la sbagliata convinzione che se faccio un film pieno di lentezza, inquadrature ardite, scenografie spoglie e luci soft, fatto un bel film d'autore.
Potrei ripescare pari pari il post su "Mare Nero" di Roberta Torre per commentare questo lavoro di Franchi, perchè i difetti dell'uno sono anche i difetti dell'altro.

Elio Germano, (che per sua ammissione per girare questo film ha particolarmente sofferto, sia psicologicamente che fiscamente) in difesa del film disse che in Italia è ora di dare spazio anche a film meno popolari, film più di nicchia, indirizzati non al vasto pubblico perchè più forte, più ricercati. Assolutamente condivisibile come affermazione, certo, se si include in queste caratteristiche anche quella di essere un bel film. Visto che "Nessuna qualità agli eroi" è veramente un pessimo film.
Noioso sempre senza motivo e soprattutto pretenzioso. Si cerca di scrivere e dirigere (e in questo caso anche montare) questi polpettoni dandogli un tocco autoriale, ma da chi, Autore, non lo è neanche lontanamente. Due che scopano tagliati per metà fuori dalla inquadratura. Ok, potrebbe avere un senso. Ce l'ha in questo film? No. Così come non ha senso la trama, o meglio il film poggia su una storia inutile, che non interessa a nessuno. E fino alla fine uno cerca di capire quando questa cominci a decollare, ma si va avanti fino alla fine solo tra noia, noia e un pizzico di noia.

E' singolare come durante la visione del film abbia provato la stessa sensazione provata con il film della Torre, ovvero quella di essere difronte a un film francese. In alcuni momenti (al di là chiaramente degli attori che in francese recitavano) si respirava un aria tipicamente d'oltralpe nel ritmo, negli ambienti, nella costruzione delle scene. Si tratta però solo di una brutta copia, di un tentativo di imitazione mal riuscito. Per favore chi non è capace la pianti di cercare di esplorare la psicologia umana, di analizzare l'anima nera e la sofferenza dell'individuo, prima che ad impazzire siano gli spettatori in sala.

Insomma alla fine, nessuna qualità al film.