lunedì 15 dicembre 2008

"Come Dio comanda" di Gabriele Salvatores


Trasportare sullo schermo quasi 500 pagine di romanzo non è impresa facile. Ancora di più se in quelle 500 pagine si intrecciano le storie di ben 4 personaggi principali, più un paio di comprimari le cui vite si fondono insieme in un'unica notte, in un'unica tempesta che sconvolge non solo il paese me quelle stesse vite, per sempre.
Salvatores ci prova, prendendo in mano per la seconda volta un opera letteraria di Ammaniti e con il supperto dell'o stesso autore alla sceneggiatura porta sullo schermo quelle 500 pagine. Il risultato è francamente deludente.
Va premesso che ovviamente il libro andava ampiamente snellito, letteramente amputato di gran parte delle vicende narrate ed era necessario puntare l'attenzione solo su alcuni personaggi. La scelta cade come è ovvio di Rino e suo figlio Cristiano veri protagonisti del film e tra Donato e Quattro Formaggi, i due amici di Rino, la scelta è caduta su quest'ultimo preferendo quindi l'omicidio della ragazzina alla rapina al bancomat.
La scelta a parer mio mi sembra corretta. Mantenere anche il personaggio di Donato, con tutto il suo passato doloroso (la morte della figlia e la separazione della moglie) avrebbe allontanato troppo l'attenzione da padre e figlio e sarebbe stata veramente una storia a se stante.
Quattro Formaggi invece e il suo omicidio, diventano una buona scusa per indagare ancora più affondo il rapporto tra Cristiano e Rino.

Il problema qual'è? E' che tutto appare un po' frettoloso, un po' superficiale. La tempesta, quella notte di pioggia e fulmine che cambia la vita dei protagonisti perde completamente di significato simbolico rispetto al libro. Si parla tanto di influenza Shakespieriana, ma proprio uno degli elementi tragici della storia si trasforma in un semplice elemento scenografico senza alcun valore. E poi Dio dov'è? Che senso ha il titolo nel film? Spunta fuori nel finale, ma senza forza, senza peso. La trasposizione dal letterato al filmico ritengo che necessiti sempre di abbondanti cambiamenti, di modifiche nella struttura narrativa, di innesti e amputazioni calcolate, ma sempre senza snaturare la storia, i personaggi e l'essenza del romanzo. Qui mi sembra che si prendano in prestito dei personaggi per mettere insieme quello che appare come un singolo episodio di una storia più ampia. Il film non ti trasporta come dovrebbe fare, sembra sempre che prima o poi decolli, che questa sia solo una introduzione a qualcosa di più ampio respiro e invece niente.

Non lo so, forse conoscendo il romanzo la sensazione di esagerata sintesi viene amplificata, però è innegabile che alla fine Salvatores (che ormai non azzecca un film decente dal '97 eccezion fatta per "Io non ho paura") abbia creato un opera abbastanza banalotta, snaturando quello che di buono c'era nell'opera di Ammaniti. Ne viene fuori qualcosa di completamente diverso, che come legame ha solo i nomi dei personaggi e poco altro. "Come Dio comanda" è una di quelle trasposizioni che mi portano a domandarmi che senso abbia fare un film su un romanzo se poi del romanzo finisce per esserci ben poco. Scrivere una storia originale no? Se è così difficile trasportare 500 pagine scritte da Ammaniti sullo schermo perchè farlo? Vabbè domande retoriche lo so, però si spera che qualche regista intelligente (e Salvatores dovrebbe esserlo) finisca per porsele prima di girare un film del genere.

Nota positiva per l'ottimo cast composto da Filippo Timi, Elio Germano e l'esordiente Alvaro Caleca.

martedì 2 dicembre 2008

Cambio di finale per Allen e Shyamalan


In questo post non commento nessun film. Faccio solo una considerazione riguardante i finali di due film alla luce della recente visione dei rispetti DVD. I film sono "Sogni e delitti" di Woody Allen e "E venne il giorno" di M. Night Shyamalan. (per la cronaca sono entrambi autori che adoro). Entrambi i film mi hanno lasciato perplesso per quanto riguarda il finale. Il primo conclusosi troppo sbrigativamente con quella inquadratura della barca dei due fratelli che sembra non avere alcun significato apparente, l'altro invece con un troppo buonista e fuori luogo siparietto famigliare. Ora, rivedendo i film in DVD ho compreso quei finali e li ho rivalutati. Ecco come.

Per quanto riguarda il film di Allen, ammetto che avrei potuto fare questo ragionamento direttamente in sala, ma al momento non ci avevo pensato. Tutta colpa del traduttore dei titoli. "Sogni e delitti" infatti come ben si sà è il titolo italiano del film, mentre quello originale è "Cassandra's Dream", il sogno di Cassandra. Cassandra, figlia si Priamo, secondo la mitologia greca ebbe in dono da Apollo il potere di predire il futuro. Le sue, però, erano previsioni funeste, a cui nessuno credeva. Era, quindi, portatrice di sventure e tragedie.
Nel film, il sogno di Cassandra è il nome che i due fratelli danno alla loro barca, con l'augurio che questa gli porti fortuna in vista dei piani, soprattutto finanziari, che hanno in mente. Le cose però andranno in tutt'altra maniera. Il sogno di prosperità si tramuterà presto in tragedia.
Woody Allen decide di chiudere il film andando proprio a inquadrare la loro barca, teatro della loro morte nonchè della definitiva realizzazione del funesto presagio. Quell'inquadratura va a chiudere degnamente il tragico sogno andando ad evidenziare come tutto era fin dall'inizio già previsto. Con l'acquisto di quella barca e soprattutto con la scelta di quel nome (che deriva dal nome di uno dei cani sui quali Terry aveva scommesso alle corse e grazie al quale ha vinto i soldi necessari all'acquisto della barca) Terry e Ian hanno segnato la loro vita. Noi spettatori lo sapevamo fin dall'inizio, o almeno avremmo dovuto e Allen ce lo ricorda proprio con quella inquadratura in chiusura. Proprio perchè la storia di Terry e Ian è la storia di una profezia, di un presagio drammatico che fin dall'inizio Cassandra ci aveva raccontato.

Il secondo finale, questa volta, acquista maggior senso proprio grazie al DVD uscito di recente. "E venne il giorno" l'ultimo lavoro di uno dei più interessanti registi contemporanei, M. Night Shyamalan, termina con un quadretto famigliare nel quale troviamo Alma in attesa del risultato del test di gravidanza. Il risultato è positivo e tutta felice scende in strada per annunciare la lieta notizia al suo maritino. Finale sinceramente assurdo e completamente fuori contesto, più adatto ad un film di serie B che ad un opera di un autore attento ed originale come Shyamalan. Va detto intanto che, a detta dello stesso regista, vi erano effettivamente sin dall'inizio le intenzioni di realizzare un bel film di serie B, ma ad ogni modo questo finale sembrava veramente più una costrizione proveniente dalla produzione che una idea originale del regista.
Invece, ho capito le intenzioni di Shyamalan e la funzione di questo finale visionando le scene tagliate del film. Tra queste vi è l'originale sequenza di apertura della pellicola che, a dfferenza del "final cut", non cominciava a Central Park, ma bensì a casa di Alma ed Elliot nel bel mezzo di una litigata. Alma rivela al marito di non sentirsi protetta da lui, di vederlo ancora come un bambino, di non essere per questo pronta ad avere un figlio e di essere sempre stata convinta che lui non avrebbe mai potuto dargli la sicurezza di cui ha bisogno.

Alla luce di questa scena, è chiaro quali erano le intenzioni di Shyamalan fino al montaggio. Il film finisce a casa Moore perchè è iniziato a casa Moore. Gli eventi drammatici che hanno sconvolto il mondo hanno alla fine, paradossalmente, messo a posto la situzione sentimentale dei personaggi. La tragedia ha portato Elliot e Alma a guardarsi in faccia, a scoprire se stessi e aiutato Elliot a raggiunge finalmente Alma che fino a quel momento era sempre un passo in avanti e per questo si sentiva insicura e sola. Nel mezzo di questa situazione di coppia, all'improvviso, senza spiegazione la Natura si ribella e scoppia il panico. 45 anni fa erano gli uccelli che spargevano morte e follia tra la gente, adesso la Natura si manifesta in altro modo, Poi, così com'è cominciato l'orrore finisce, senza motivo, senza segnale alcuno. La vita torna alla normalità, con la consapevolezza che non siamo e non saremo mai padroni del mondo, che siamo solo ospiti di una realtà molto più potente di noi. E la vita riprende anche per la nostra coppia che ora però è cambiata. Elliot ha dimostrato di potersi prendere cura di Alma e ora che i due sono diventati per la prima volta una cosa sola, lei può essere felice di dare alla luce un bambino. Perchè poi è proprio di questo che parla il film: della necessità dell'uomo di dover guardare dentro se stessi, di staccarsi dal gruppo, dalla società per capire realmente chi siamo e chi sono gli altri (tutto questo viene mostrato allegoricamente dalla necessità dei personaggi di isolarsi in gruppi sempre più piccoli per sfuggire alla tossina).

La scena venne scartata in fase di montaggio da Shyamalan, perchè giustamente finiva per spiattellare in faccia allo spettatore tutta la situazione sentimentale dei due personaggi nei primi 5 minuti. Mentre, in questo modo, noi scopriamo mano a mano quello che succede tra i due, quello che pensano e quello che provano, sentendo parlare di una discussione, di una litigata di cui non conosciamo niente ma che permette di dare spessore ai personaggi.
Ora uno può chiedersi, ma se hai deciso di togliere questo inizio, perchè non togliere anche il finale che ora perde di significato?
Il motivo è che la decisione è avvenuta in fase di montaggio, quando il film era già bello che girato e non in fase di sceneggiatura. Un inizio può essere modificato, basta scartare la scena 1 e cominciare con la scena 2. Ma questo non è possibile farlo con il finale, almeno che appunto non si sia ancora in tempo per scriverne e girarne uno nuovo. Eliminare la scena finale del test di gravidanza non era possibile proprio perchè non c'era nessun finale a disposizione. Non si poteva certo finire con Elliot e Alma che si incontrano sul prato, ne con la sola scena di Parigi. Bisognava per forza utilizzare l'unica conclusione prevista, che anche se ormai poco significativa, era l'unica possibile.

lunedì 1 dicembre 2008

"Il circo" di Charlie Chaplin

Non ho mai provato una sensazione di tristezza tale come quando guardo i film di Chaplin. Può sembrare un paradosso, ma la straordinaria capacità che aveva di passare da una gag comica che ti fa piegare dalle risate alla sequenza più malinconica e triste era straordinaria.
E poi, Chaplin era la vera essenza dell'Artista, nel significato più accademico del termine. Colui che osserva la realtà e attraverso il suo talento la filtra e la ripropone al pubblico sotto forma di film, romanzo, quadro, musica, fotografia per mostrare quello che gli altri non hanno visto, per far chiarezza su quello che ci circonda.
"Il circo" è uno di quei film che contiene al suo interno tutto Chaplin e forse qualcosa di più. C'è la sua comicità, c'è la sua presenza scenica, c'è la sua malinconia, la sua dolcezza, il suo talento creativo dietro la macchina da presa. Ci sono persino le sue musiche e la sua voce, nella canzone che scorre sopra i titoli di testa.
Nel suo continuo pellegrinare per il mondo, o meglio nel suo continuo fuggire dalle autorità, il vagabondo questa volta si ritrova all'interno di un circo, dove suo malgrado diventa protagonista di un numero di clown, fino a quel momento per nulla divertente, che proprio grazie alla presenza di Charlot finisce per diventare il clou dello spettacolo. Per questo motivo, il tramp verrà assunto e potrà vedere di persona il meschino e violento mondo del circo. La stella che si rompe in apertura di film e la porta che si apre e che in tutta la sua forza e gioia ci proietta nel magico mondo del circo. Mondo che dopo pochi istanti scopriamo essere tutto fuorchè magico. E' un mondo violento, assurdo e selvaggio. Fatto di padri padroni, talenti sfruttati, meschinità, sotterfugi e follie. Insomma il circo assomiglia moltissimo al nostro mondo, alla nostra società.
Charlot vi si trova catapultato dentro e finisce incastrato negli ingranaggi della società, come ai tempi di..."Tempi Moderni".

Emblematica la scena del numero sulla fune. Charlot viene costretto dal direttore del circo a fare qualcosa per cui non è portato, finisce letteralmente per mettere la sua vita in equilibrio su un filo, con l'assurdità e la follia del mondo (le scimmie) che lo tartassano, cercano di farlo fallire. Lui si ritrova senza più niente, resta in mutande addirittura e alla fine, grazie alle sue capacità riuscirà a salvarsi. Una scena che sintentizza perfettamente il pessimismo con il quale Chaplin guardava il mondo che lo circondava, quella società fatta di padroni disposti a lasciarti in mutante per non fallire, ma dalla quale solo gli artisti, con il loro talento sono in grado di salvarsi.
Splendide anche la famosissima sequenza della stanza degli specchi, (manifesto della meticolosità con cui Chaplin studiava le sue gag nelle quali tutto era calcolato alla perfezione), la scoperta da parte di Charlot dell'amore della ragazza per Rex e relativo crollo delle sue speranze e dei suoi sogni (questa è una di quelle straordinarie sequenze malinconiche dei suoi film) e il finale. Su un prato vuoto, al centro del cerchio lasciato dal tendone sull'erba, Charlot, dopo aver lasciato andar via il suo amore, resta lì, con la stella di carta in mano che appollottola e calcia via, lasciandosi alle spalle quel mondo e riprende il suo cammino verso l'infinito, da solo, ma ancora puro.

martedì 11 novembre 2008

"Il posto delle fragole" di Ingmar Bergman & "Harry a pezzi" di Woody Allen

Qualunque artista, nel corso della sua formazione, rimane influenzato da altri artisti che lo hanno preceduto e che in qualche modo lo hanno colpito, ispirato e affascinato. Generalmente perchè i due artisti hanno una stessa concezione e visione della vita, oppure perchè lo stile dell'uno si rispecchia in quello dell'altro. Tale ispirazione la si può notare nel proprio lavoro, nella propria arte che trova punti di collegamento con le opere dell'altro artista.

Uno dei registi che più hanno influenzato il cinema di Woody Allen è indubbiamente Ingmar Bergman, sia a livello visivo, ma soprattutto a livello filosofico e morale. Ad accumunare i due autori c'è soprattutto lo stesso approccio alla morte e a Dio. Entrambi (Bergman in maniera più marcata) hanno cercato di porre interrogativi e magari buttare giù anche qualche risposta, sull'esistenza di Dio, sul percorso dell'uomo nel corso della sua esistenza e sullo stretto rapporto tra questi e la morte. Ma le similitudini tra i due registi non interessano soltanto le tematiche affrontate ma anche il visivo, la messa in scena. Specialmente per i suoi film più intimisti e drammatici come "Interiors", "Un'altra donna", "Crimini e misfatti" Allen muove la macchina da presa quasi tenesse sempre a mente il maestro svedese. Il lavoro di Gordon Willis in "Interiors" ricorda moltissimo quello di Sven Nikvist in molti film di Bergman, e non è un caso che lo stesso Nikvist sia stato scelto da Allen per fotografare i suoi "Un'altra donna", "Crimini e misfatti" e "Celebrity" (nonchè il corto "Edipo relitto" contenuto nel film collettivo "New York Stories").

In questo post voglio mettere in relazione due film, "Harry a pezzi" di Allen e "Il posto delle fragole" di Bergman entrambi legati da un comun denominatore che è quello del viaggio come mezzo per esplorare se stessi, e vedere come i due autori abbiamo utilizzato questo stesso espediente per fini differenti. Come detto, a legare i due film c'è il punto di partenza. In entrambi i casi il protagonista deve partire per raggiungere la sua vecchia università per ricevere un importante riconoscimento. Nel corso del viaggio verrà a scoprire qualcosa di più sulla propria vita e capirà meglio se stesso. Nel film di Bergman il protagonista è Isak Borg, anziano medico in pensione che parte in auto in compagnia della nuora e di un terzetto di giovani incrociato per strada.

Borg all'inizio del suo viaggio è un uomo solo, freddo nei sentimenti, cinico ed egoista, per quanto apparentemente si creda una persona gentile e comprensiva. Il film si apre con un sogno avuto da Borg durante la notte. Un sogno fatto di strade deserte, orologi senza lancette, unuomo senza volto che si dissolve in sabbia e sangue e un carro funebre con dentro la bara contenente il corpo dello steso Borg. Un sogno che sta ad indicare la solitudine del protagonista e la fine, ormai prossima, dei suoi giorni. Con la consapevolezza di essere arrivato al termine della propria vita, Borg attraverso questo viaggio reale verso l'università, compie anche un viaggio attraverso i ricordi, visitando il "posto delle fragole" e trasportandosi grazie al sogno direttamente nei giorni della sua infanzia, che quasi come il Dottor Scrooge de "Il canto di Natale" scopre quello che realmente, con i suoi comportamenti ha lasciato nelle persone che lo amavano.

L'Harry alleniano invece è uno scrittore in pieno blocco creativo. Anche "Harry a pezzi" inizia con racconto introduttivo. In questo caso invece che di un sogno si tratta di un estratto dall'ultimo romanzo dello scrittore. Un racconto che ci anticipa (in chiave divertente) l'interesse di Harry per la cognata. Cognata che subito dopo irrompe realmente a casa sua, pistola alla mano, sconvolta nello scoprire come nel romanzo Harry abbia raccontato la loro storia segreta. Scopriamo così che Harry Block è un uomo cinico, egoista, alcolizzato e puttaniere. Ma soprattutto è uno scrittore in crisi creativa, non più in grado di mettere ordine nella propria vita dopo che la donna che ama lo ha lasciato per il suo migliore amico. Il viaggio in auto, in compagnia del figlioletto, di un amico e di una prostituta, diventa anche qui non solo un viaggio fisico verso l'università, ma un viaggio dentro se stesso. A differenza de "Il posto della fragole" il viaggio di Harry è si nel suo passato, ma in un passato più prossimo che quasi coincide con la sua vita attuale e soprattutto non è un viaggio nei sogni o nei ricordi, ma un viaggio nei suoi racconti. Nel corso del film vediamo brevi rappresentazioni dei racconti scritti da Harry, che spesso altro non sono che metafore della sua vita. Frammenti allegorici del proprio carattere, delle proprie relazioni, del proprio conflitto interiore.

I due viaggi servono ai due protagonisti per capire meglio se stessi. Ma con scopi diversi. Sergio Transatti scrisse che quello di Borg è una storia di conversione. Al termine del film (e del viaggio) Isak Borg capisce realmente chi è e quello che ha fatto, il modo in cui ha trattato la moglie, la convinzione di essere "morto, pur essendo vivo" e la negativa influenza che ha avuto verso il figlio, divenuto una sua brutta copia. Al termine dei suoi giorni, a pochi passi di distanza dai suoi genitori che lo aspetto sulla riva del lago nell'aldilà, Borg si converte, ammette i suoi peccati e si pente del suo comportamento. Harry invece mette ordine tra i pezzi frammentati della propria vita e si rende conto che la sua vita è tanto tormentata e scombussolata, quanto la sua arte sia invece lucida, ordinata e creativa. Harry non si converte, ma comprende che nella realtà, nel mondo vero lui non è in grado di funzionare, non è capace di vivere in equilibrio con gli altri e di essere felice. Riesce ad esserlo solo nei suoi racconti, manipolando liberamente il mondo fantastico delle sue storie e dando felicità e divertimento grazie alla sua arte.

Le due onoreficenze che i personaggi ricevono sono un po' come il giro di boa (per Borg è più un traguardo) che li porta a guardarsi alle spalle e chiedersi "Sono arrivato fin qui, qualcosa di buono devo aver fatto. Ma ho fatto tutto come dovevo?" "Ho dei rimpianti? Nel mio lavoro, nella mia vita privata, c'è qualcosa che ho sbagliato?". Le risposte, per entrambi, sono: No, non ho fatto tutto come dovevo e che Sì, ho più di una cosa da rimpiangere.

Mentre Borg ormai non può far altro che "convertirsi" e vivere in pace i suoi giorni, Harry razionalizza che la sua vita non ha modo di sistemarsi, se non attraverso suoi romanzi, la sua arte. L'Arte come mezzo per esprimere se stessi. Attraverso di lei, Harry riesce ad essere più vero di quanto non sia nella vita reale.

La cosa interessante è che Woody Allen, conoscendo bene "Il posto delle fragole", ha scelto incosciamente di utilizzare lo stesso stratagemma narrativo adottato da Bergman, per poi sviluppare nel suo stile una storia tutta sua, fatta di nevrosi, tradimenti, intrecci sentimentali e fuga dalle proprie responsabilità. Ma in entrambi i casi c'è una visione piuttosto negativa dell'uomo. Isak Borg e Harry Block, sono uomini messi difronte alle proprie esistenze e alle proprie colpe. Non è così difficile immaginarsi Borg entrare nell'ascensore che conduce all'inferno, o Harry girare per le strade vuote con gli orologi senza tempo.

lunedì 10 novembre 2008

"Il grande sonno" di Howard Hawks


Questo è un giallo dove non ce ne frega una mazza di sapere chi sia l'assassino. Man mano che la storia prosegue, non ci interessa sapere alla fine chi o che cosa c'è dietro all'insieme di misteri e intrecci dei quali Marlowe deve andare a capo. Alla fine, qualcuno, come nel romanzo, resta addirittura irrisolto.
Non ce ne frega nulla per due motivi. Primo, perchè quei misteri e quegli intrecci sono troppo ingarbugliati per riuscire a capirci qualcosa. Secondo, perchè c'è qualcosa di più interessante da seguire. Ci sono i personaggi.
Se si guarda "Il grende sonno" decine di volte, anche se si presta massima attenzione alla storia, ad un certo punto finiamo per perderci. Ci perdiamo a seguire Bogart, i suoi gesti, le sue battute, quell'aria scaltra di chi sa tutto del mondo. Seguiamo i suoi battibecchi con la Bacall (o con le altre donne). I suoi botta e risposta con i gangster che di volta in volta gli capitano a tiro. Smettiamo completamente di interessarci al giallo perchè stiamo assistendo alla nascita di un mito. E tutto passa in secondo piano. Più che in Casablanca, è nel noir di Hawks che Bogart è Bogart in tutto il suo stile.
La caratterizzazione che Bogart ha fatto del suo Philippe Marlowe è straordinaria. Si parla davvero di nascita di un simbolo, di una icona, di un personaggio unico che può soltanto essere marchio di fabbrica di uno stile. Da questo film in poi nasce il comportamento "alla Bogart", quello che per intenderci sconvolge il Sam di Woody Allen in "Provaci ancora Sam", quello che quando gli chiedi "Come lo vuoi il Brandy?" ti risponde "Nel bicchiere".
- Lei non ha l'aria di collezionare libri rari. (gli dice la bionda bibbliotecaria)
- Colleziono anche bionde sotto vetro.
In taxi
- Dove andiamo?
- Seguiamo quella macchina. Le dispiace?
- Sono tutta sua.
- Fosse vero.
Marlowe e Carmen
- Sei in gamba. Mi piaci.
- E questo è niente. Aspetta di vedere la danzatrice di Bali che ho tatuata sulla schiena.
Il premio Nobel William Faulkner, autore della sceneggiatura, (tratta ovviamente dall'omonimo romanzo di Chandler) e Howard Hawks riescono a dar vita a un noir difficilmente replicabile. Uno dei rari esempi dove anche se la trama non ci cattura come dovrebbe riesce a tenerci incollati allo schermo attratti dal fascino unico di Humphrey Bogart e dai dialoghi serrati e pungenti.

domenica 19 ottobre 2008

"Vicky Cristina Barcelona" di Woody Allen

Vale la premessa del post precedente. Anzi, vale ancora di più. Non ho mai postato un commento su un film di Allen, nonostante lo ami e conosca bene tutti e 36 i suoi film, non perchè non avrei nulla da dire, ma al contrario perchè ne parlerei troppo e alla fine mi rendo conto che non è questa la sede adatta.
Ci provo con il suo nuovo lavoro, "Vicky Cristina Barcelona" che miracolosamente ha mantenuto il titolo originale anche da noi, a differenza del precedente lavoro che vide trasformarsi il bellissimo e mitologico titolo "Cassandra's Dream" nell'insulso "Sogni e Delitti".

Londra deve ispirare pensieri neri ad Allen tanto da portarlo ad indagare i lati oscuri dell'animo umano con la trilogia dei delitti, tra assassini, scelte tormentate e peccati con cui condividere. A Barcelona invece non piove, tutto è solare e anche la penna dell'autore newyorchese si alleggerisce. Beh, quasi. Intanto va detto che questo è un film come non se ne erano mai visti prima nella sua filmografia (e questo è, a prescindere da tutto, un bene).
Di commedie sentimentali volte ad indagare i vari aspetti delle relazioni umane Allen le ha sempre girate, ma qui c'è una leggerezza e una freschezza nel modo in cui la storia viene raccontata che non si riscontra in nessun'altra opera. Contribuisce la voce narrante (un po' troppo presente a dire la verità) che conferisce al film un tono da favoletta spensierata, da rissunto delle vacanze.
Qualcuno critica la fotografia "turistica" con cui Allen presenta Barcellona, rispetto alla Londra degli ultimi film. Ma è una critica assurda, proprio perchè sono due turiste americane in visita alla città le protagoniste del film e Barcellona, la Barcellona solare, calda e da cartolina, rappresenta il terreno sul quale le vite delle due ragazze vengono per un certo periodo scombussolate. Non è un caso che il film si apra con le ragazze che escono dall'aeroporto e finisce con le due che rientrano in aeroporto, aprendo e chiudendo così la loro parentesi catalana.

L'idea del viaggio come forma di autoanalisi, Allen l'aveva già utilizzata in passato, vedi il capolavoro "Harry a pezzi" in cui il protagonista rianalizzava se stesso durante il viaggio verso l'università dove avrebbe ricevuto una onorificenza (analogia con "Il posto delle fragole" di Bergman). In questo viaggio, quello su cui Allen vuole concentrarsi maggiormente è la libertà dei sentimenti e soprattutto sull'errore comune di etichettare non solo gli altri ma anche se stessi, dandosi delle caratteristiche ben precise, senza avere la consapevolezza che in realtà di preciso e sicuro non c'è mai nulla. Sia Vicky che Cristina infatti tornano a New York con qualche dubbio in più e soprattutto con delle nuove "se stesse" dentro di loro di cui non conoscevano l'esistenza. Vicky non avrebbe mai immaginato di poter mettere in dubbio le sue convinzioni e Cristina forse resterà con una domanda in testa "Se non ci fosse stata Maria Elena, avrei potuto avere una relazione stabile?" e con la consapevolezza di un talento che non pensava di avere, assomigliando in questo un po' alla Joey di "Interiors" che sentiva di avere dentro di sè molto da dare ma non trovava la strada giusta per esprimerlo.
Il fulcro su cui ruota l'autoanalisi delle due ragazze è Juan Antonio. Libero, tormentato, istintivo, ma nello stesso tempo sentimentale e maturo, è un personaggio per quanto affascinante, un po' troppo stereotipato che incarna la classica immagine del bell'artista spagnolo, sexy e tenebroso. Ma è un personaggio ad ogni modo riuscito che porta a termine il suo compito, ovvero attrarre Vicky e Cristina (oltre che noi spettatori) e portarle a interrogarsi su loro stesse e sulle loro convinzioni.

Non è un film su un triangolo amoroso, come ostinatamente e banalmente continuano a dire i critici, ma è un film sulla rottura delle convenzioni in amore. Il menage a trois, quello tra Johansson-Cruz-Bardem occupa una piccola parte della storia e va a simboleggiare quella ricerca di libertà e di sperimentazione amorosa alla base del film, ma che alla fine diventa troppo anche per la passionale Cristina. E' un tema che abbiamo già visto nei film di Allen, ma sempre in modo abbastanza marginale. Qui invece viene approfondito maggiormente trovando il suo fulcro nel dialogo tra Vicky, Cristina e Doug, il fidanzato vecchio stile fermo nei legami tradizionali e che ama catalogare persone e situazioni e che appena Cristina gli parla del legame che si è istaurato con Maria Elena chiede subito "Allora sei bisessuale?".

Anche la regia di Allen è diversa. Diminuiscono i piani sequenza, la macchina da presa è più ferma del solito e anche dialoghi ricchi di tensione, come quelli che vedono la presenza di Maria Elena, sono girati spesso e volentieri in campo e controcampo, cosa abbastanza insolita per Woody Allen, che invece preferisce girare con pochi ciak, camera in steady e attori che non stanno mai fermi in un punto. Qui sono gli attori al servizio della macchina da presa.

Allen è sempre stato innamorato dei racconti liberi. Liberi dagli schemi della narrazione. Ha sempre prediletto storie in cui poteva permettersi la libertà di saltare da una parte all'altra della storia, di inserire flashback o sogni nel bel mezzo della vicenda, di mostrare quello che è accaduto o quello che sarebbe potuto accadere senza tanti pensieri. E una storia come questa, narrata da una voce fuori campo, sembrerebbe ideale per questo tipo di approccio narrativo, e invece l'autore mantiene una certa linearità del filo degli eventi, inserendo un flashback solo nella scena della camera oscura. E' un approccio interessante che probabilmente ha lo scopo di mantenere intatta l'idea del viaggio, della visita a Barcellona con una sua fine e un suo inizio e che comporta il cambiamento delle due turiste americane. Allen alleggerisce anche il tono dei suoi dialoghi, cancellando ogni traccia del suo tipico humor e adeguando tutto allo stile del film. I critici sono lì che contano quante battute ci sono nei suoi ultimi film e se non ne trovano bocciano la pellicola. Assurdo.

"Vicky Cristina Barcellona" segna il ritorno di Allen all'analisi delle relazioni sentimentali, dopo aver osservato la bidimensionalità della vita in "Melinda e Melinda" e, sotto vari aspetti, il rapporto tra uomo e omicidio, tra l'uomo e il suo lato oscuro in "Match Point", "Scoop" e "Sogni e Delitti". Termina l'escursione europea con un film godibile, che lascia interessanti spunti di riflessione e che dà una ventata di solarità ben accetta.
Buono il cast, soprattutto Rebecca Hall e Penelope Cruz. La Johansson è sì sexy e piena di quella "polposa umidità" come la definisce Woody, ma a me continua a non sembrare questo granchè come attrice. Bardem è Bardem e non si discute anche se qui fa "solo" il maschio latino.

Passa un film e subito (almeno io) attendo l'altro che segnerà il ritorno non solo di Allen davanti alla camera, ma anche nella sua Manhattan. Vedremo che cosa si porterà dietro nella Grande Mela dal Vecchio Continente.

venerdì 26 settembre 2008

"Burn After Reading" di Ethan e Joel Coen

Premessa: faccio molta fatica a commentare film di registi che adoro. Proprio perchè la stima che ho nei loro confronti non mi permette di essere obiettivo o di analizzare in profondità il film. Per questo ci sono molti film che non inserisco nel blog perchè sarebbero brevi post pieni di elogi e basta. La stessa cosa avviene con i film dei fratelli Coen. Quindi se questo post è poco critico e forse abbastanza inutile, io ve l'ho detto.


Se questo film fosse stato una boiata pazzesca, il titolo, ovviamente quello originale non quello nostrano (quello si che è una boiata) si sarebbe potuto ritorcere contro. Bruciare dopo averlo visto. Per fortuna "Burn After Reading" è tutto tranne che un film da bruciare, anzi.

C'era un po' di timore, tra gli addetti ai lavori, dopo il successo di "Non è un paese per vecchi". Il timore era che i due fratelli potessero seguire la strada "facile" del film fotocopia, puntando sugli elementi di forza che hanno decretato il successo del precedente lavoro. E' un po' quello che la gente si aspettadopo un successo. Era così anche per Tarantino dopo "Pulp Fiction", mentre lui spiazzò tutti creando "Jackie Brown" un film "tarantiniano" ma per molti versi diverso dal vincitore della Palma d'Oro. Il timore però, per chi conosce bene Joel e Ethan Coen, era insensato. I Coen sono registi troppo intelligenti per farsi prendere dall'entusiasmo del successo e perdere la propria originalità. Infatti, ecco "Burn After Reading". Forse insieme ai due vincitori dell'Oscar, "Fargo" e "Non è un paese per vechi" uno dei loro film più belli e riusciti.
Al di là della presenza di star mediatiche come Clooney, Pitt e Malkovic (per la cronaca ottimo cast, ad eccezione della Swinton) quello che mi affascina del film, e che mi fa amare i Coen è la straordinaria qualità tecnica con la quale è realizzato. E' raro in una commedia, a tratti demenziale come questa, vedere inquadrature così perfette e giochi di stili che fanno il verso (senza parodiare però) i clichè dei classici film di spionaggio. I Coen hanno l'innata capacità di fondere insieme talento visivo e originalità narrativa.
La loro fusione di comicità e violenza, di dramma e grottesco, senza rendere nessuno di questi aspetti eccessivo o inutile, non ha eguali.

Con "Burn after reading" i Coen hanno dimostrato ancora una volta di essere autori di grande intelligenza ed estremo talento. Capaci di dar vita a personaggi unici e a intrecci e situazioni che spiazzano e sorprendono continuamente.

Pitt che arriva all'incontro in bicicletta con mp3 nelle orecchie è geniale. Una inquadratura e il personaggio di Chad è perfettamente delineato. Così come i gesti e le espressioni di Malkovic a inizio film che definiscono subito la personalità di Cox.
E poi le citazioni, da Clooney che corre intorno al lago come Dustin Hoffman in "Il maratoneta" con tanto di ripresa laterale, nascosta e in ombra del personaggio che si guarda intorno, tipica dei film di spionaggio, all'autocitazione di Cox che uccide a colpi di accetta come Peter Stormare in "Fargo".
I Coen creano dei deficienti assoluti e li inseriscono in un contesto serio, reinventando un genere e paradossalmente, rendendo la storia più reale di un filmdrammatico, un po' come fece Kubrick dando il destino del mondo in mano ai pazzi imbecilli de "Il Dr. Stranamore".

domenica 7 settembre 2008

"Kung Fu Panda" di Mark Osborne


Viene spontaneo, nel cinema, fare paragoni. Specialmente quando in un genere, un contesto, una storia analoga si muovono due realtà differenti. Così viene spontaneo fare paragoni quando ci si trova davanti a un remake, oppure quando due registi affrontano lo stesso tema in due opere differenti. Oppure quando un genere, come il film d'animazione, vede scontrarsi due giganti come la Dreamworks e la Pixar. Una sfida ideale per chi vuole cimentarsi in inutili, quando inevitabili, chiacchere da bar.
L'uscita del nuovo film della casa di produzione spielberghiana e l'imminente uscita dell'atteso Wall-e ci portano a fare distinzioni tra i due differenti approcci all'animazione scelti dalle due case.
"Kung Fu Panda" segna un'altro punto a favore della Pixar. Che si dimostra ancora una volta su un'altro pianeta rispetto alla Dreamworks. Non tanto per la qualità dell'animazione, ma per quanto riguarda la trama, l'umorismo e la poesia che ci mette per raccontare le sue storie. Il film sul panda guerriero è sì divertente, ma è estremamente banale e infantile. Le risate arrivano solo quando il panda cade, rimbalza, si schianta contro il muro, si fa male, prende botte o si ingozza di cibo. Una comicità che dovrebbe essere slapstick ma che finisce per essere vecchia e priva di originalità. La mimica di Linguini in "Ratatouille" è veramente tutt'altra cosa.
Qualche battuta divertente c'è ma è poca cosa rispetto al resto del film.
Anche personaggi e trama sono scontanti, pieni zebbi di clichè triti e ritriti del genere arti marziali dall'addestramento, alla profezia millenaria, dall'ex allievo divenuto cattivo all'infinita scalinata del tempio. Non manca neanche il saggio maestro che morendo si dissolve e raggiunge il firmamento (ci mancava che alla fine le stelle disegnassero il suo viso ed eravamo apposto).

Ormai alla Dreamworks hanno rinunciato a spingersi più in là, a osare e si divertono a creare film per ragazzini o adolescenti che ridono con poco e lasciano la poesia, la creatività e i rischi alla Pixar che quest'anno addirittura ci propone un film d'animazione in gran parte muto. Quindi niente botte, smorfie o flatulenze.
Sono in trepidante attesa.

martedì 19 agosto 2008

"Le vite degli altri" di Florian Henckel von Donnersmarck


Passi tutta la vita chiuso nella tua mentalità fredda, rigida, fatta di regole e ordini da seguire, con l’ossessione che tutto e tutti siano contro di te, o meglio contro il sistema che devi proteggere. E quando torni a casa non hai nulla che può distrarti, che può farti staccare la spina. Niente neanche un film, un libro, un mobile che per caso, dico per puro caso, trovi fuori dalla sua posizione. Niente. Tutto bello inscatolato, preordinato, freddo e calcolato come te, come la tua vita, come il tuo lavoro.

Poi ti capita un giorno, che quel tuo lavoro freddo, rigido e calcolato ti porta a scoprire un mondo diverso dal tuo. Emozionale, anzi di più, passionale. Fatto di forza, di voglia di cambiare, di rivoluzione. E la cosa strana è che quel mondo…..ti piace. Per qualche strana ragione la tua strada dritta, che per anni hai percorso senza affacciarti mai dal finestrino per guardare quello che ti circonda, ecco che quella strada di colpo fa una curva, e tu metti la freccia, sterzi e tutto cambia. Tutto dentro di te cambia. Quel po’ di emozione, anzi di più, quel po’ di passione che hai conosciuto, entra dentro di te. E non sei più lo stesso. Ti hanno anche messo nella locandina. Tu nel tuo lato azzurro, freddo, tutto solo che li spii. E loro sono così passionali, cosi caldi, così….rossi. Dai si vede lontano un miglio che ti piacciono.

E alla fine tu, che come nome nel tuo mondo hai solo una sigla, HGW XX/7, perché il tuo è un mondo freddo, rigido e calcolato, sei anche disposto ad andare contro quello in cui hai sempre creduto, pur di salvare gli abitanti dell’altro mondo. Le stesse persone che attraverso la loro vita, che hai meticolosamente spiato, ti hanno cambiato. Finisci persino per innamorarti. Ma non di una donna. Di una attrice. Cioè quello che ti prende di lei, non è il suo corpo, il suo viso, la sua voce, la sua personalità, no, è il suo essere una portatrice sana di Arte, un veicolo per trasmettere quelle emozioni, anzi di più, quelle passioni a milioni di persone. A cercare di portare in loro un po’ di verità. Quella verità che tu, con il tuo lavoro, hai cercato di celare agli occhi della gente. Ti sei talmente immedesimato nel tuo ruolo di occultatore, che quella verità l’hai celata perfino a te stesso. Ed è proprio attraverso le vite degli altri, che alla fine sei riuscito a sentire più in là di dove arrivavano i tuoi microfoni.

Hai appena conosciuto l’Arte.
Hai appena SENTITO l’Arte.
Benvenuto nel nostro mondo.

domenica 17 agosto 2008

"Buffalo '66" di Vincent Gallo


L'opera prima di Vincent Gallo è, come la maggior parte delle opere prime, un lavoro molto personale, non solo da un punto di vista auto-biografico (molti elementi saranno stati sviluppati dall'infanzia di Gallo, anche lui cresciuto a Buffalo e nello stesso periodo in cui si svolge il film), ma anche, e soprattutto, da un punto di vista stilistico.
Gallo riesce a dar vita a una storia di per sè non originalissima, ma raccontata con una sincerità e una dolcezza difficili da ritrovare. Il piano tragi-comico su cui si muove la pellicola permette di avvicinarsi a Billy Brown, di interessarsi alla sua storia, di ridere e commuoversi delle sue vicissitudini.
Devo dire che mai come con Buffalo '66 alla fine della visione ero contento che Billy avesse fatto la sua scelta. Mi sarebbe dispiaciuto se avesse preso la strada sbagliata.
Questo è merito dell'abilità di Gallo, autore anche della sceneggiatura, di intrecciare insieme gli aspetti più tristi e drammatici della vita di Billy a virate comiche, quasi grottesche che rendono la storia unica e particolareggiata.

Belle anche le scelte registiche che anche se apparentemente sembrano fini a se stesse, vanno invece ad atirare lo spettatore rendendo interessanti anche scene per lo più banali come una conversazione a 4 intorno a un tavolo.
Una prova matura, sincera sul racconto di una iniziazione, di una fuga dal passato, dalle vecchie paure che legano Billy e gli impediscono di lasciarsi andare. Un viaggio quello in compagnia di Layla, che un viaggio in se stessi e nei propri scheletri nell'armadio. Il tutto raccontato con il giusto tocco personale, che stranamente non risulta pomposo o megalomane.

domenica 3 agosto 2008

"Il vento fa il suo giro" di Giorgio Diritti


Il mondo in una goccia d'acqua. A volte per poter capire il mondo è sufficiente guardarsi intorno, andare ad osservare il nostro microcosmo per poter comprendere le regole umane che condizionano la nostra esistenza su questo pianeta.
E' quello che fa "Il vento fa il suo giro", film piccolo, per budget e produzione, ma grande per bellezza, importanza e qualità. Il film di Diritti è uno sguardo su un picolo, piccolissimo pezzo d'Italia, su una realtà lontana da quella che ci circonda, ma nella quale possiamo facilmente riconoscere quei comportamenti e quei meccanismi più negativi che la società moderna ha trasformato in quotidiano stile di vita.
Così lontani quindi, ma anche così vicini. E se da un lato gli abitanti di Chersogno, con la loro vita rurale e soprattutto con la loro mentalità "paesana" chiusa ci appaiono arretrati culturalmente e socialmente, dall'altro le similitudine che ritroviamo nel loro modo di approcciarsi allo straniero portano alla luce la "nostra" arretratezza culturale e sociale. Un rapporto con lo straniero a tutto tondo. Gli abitanti del paesino non vedono di buon occhio Philippe e la sua famiglia perchè francese, perchè diverso nelle abitudini, nel modo di pensare (più aperto del loro) e perchè rischia di mettere mano nelle loro cose, nei loro terreni anche se quei terreni non c'è nessuno che li utilizzi. E' quindi una paura irrazionale, dettata dalla mancanza di rapporti umani, di aperture mentali, di secoli di abitudini dure a morire.

"Il vento fa il suo giro" però è anche uno scorcio in una Italia che non c'è più o che sta morendo sempre più velocemente. Una Italia, che per quanto testarda e chiusa in se stessa fa sempre parte della nostra Storia, delle nostre tradizioni. E a guardare il making of del film non sembra poi tanto più chiusa e ostile del resto d'Italia.

giovedì 24 luglio 2008

"Il Cavaliere Oscuro" di Christopher Nolan


"Il cavaliere oscuro" può essere segnalato in due modi diversi. O come il nuovo film su Batman, e quindi messo in relazione con i precedenti capitoli, oppure come il nuovo film di Christopher Nolan. Nel primo caso siamo di fronte, probabilmente, al miglior film sull'uomo pipistrello. Crudo, oscuro, in un certo senso reale, che prosegue l'intento del regista di distaccarsi un po' dal mondo fumettistico e cartoon delle precedenti versioni. Un film, forse, a tratti eccessivamente caciarone, ma che ben regge le 2 ore e mezza di azione, riuscendo a riportare Batman nella sua lugubre dimensione di cavaliere oscuro, oscuro sia fuori che dentro, che cerca di portare a termine la sua lotta disperata in una Gotham sempre più dark.

Se il tema portante di "Batman Begins" era la paura, non a caso Batman doveva vedersela con lo Spaventapasseri che faceva della paura la sua arma, ora sono le scelte e i bivi che la vita pone davanti a ognuno di noi, a segnare l'aspetto psicologico del film. I personaggi sono più volte messi di fronte a delle scelte e successivamente sono costretti a pagarne le conseguenze. Quello che Nolan ha indubbiamente portato alla saga dell'uomo pipistrello è l'indagine interiore sia dell'eroe che dei comprimari. Neanche nei film di Burton, ne tanto meno negli orribili esperimenti di Schumacher, si entrava così a fondo nelle pieghe oscure (è il caso di dirlo) dei personaggi.

Bruce Wayne deve scegliere. Deve scegliere di essere, deve scegliere di sopportare le conseguenze delle sua azioni, deve per la prima volta rendersi conto che non è un supereroe, ma solo un uomo, che non può in alcun modo influenzare gli eventi e che ad ogni azione, anche se compiuta per nobili scopi, spetta una reazione, spesso inaspettata. E' un eroe che ha dei limiti, forse proprio perchè tra tutti gli eroi fumettistici è l'unico senza poteri che lo rendono super. E' un uomo come gli altri, determinato, quasi ossessionato, ma pur sempre un uomo.
Harvey Dent/Due Facce è l'emblema della scelta. Lui, le sue azioni le fa scegliere al caso (o così crede) e la duplicità, se la porta addosso, o meglio in faccia.
"Il cavaliere oscuro" è un film teso, che non rallenta quasi mai il ritmo, che spesso di discosta come detto dall'universo fumettistico e cerca di avvicinarsi di più all'impianto thriller/poliziesco classico. Lo dimostra The Joker, che a differenza della versione DC Comics e quella Burtoniana è folle e psicopatico di sua natura. Non lo diventa dopo l'incidente alla fabbrica di sostanze chimiche. Il Joker di Heath Ledger è pazzo di suo. Il volto bianco, i capelli verdi, il sorriso rosso sono solo un trucco, una maschera personalmente creata per enfatizzare la sua follia. E' un criminale "vero", non un villain nato dal caso, così come Batman è un eroe "vero" e non frutto di un accidentale episodio con ragni, radiazioni o sostanze chimiche.
Preso come ultimo film della saga, "Il cavaliere oscuro" soddisfa in pieno lo spettatore. Considerato, invece, come l'ultimo film di Nolan, le cose cambiano un po'. Da "The Following" ad oggi, questo è il film meno nolaniano della sua filmografia. Eccezion fatta per la già citata impronta che il regista ha dato al suo Batman, sono davvero pochi gli elementi caratteristici del suo stile. Se "Batman Begins" aveva il pregio di fondere magicamente insieme il blockbuster attira-pubblico, che rende tanto felici i produttori e la firma autoriale di un regista come Nolan, qui sembra più che altro che ci si sia voluti concentrare unicamente sulla parte action movie nel quale è difficile rintracciare elementi tipici del regista. Intendiamoci, regia e sceneggiatura sono di ottimo livello, tranne per le scene d'azione corpo a corpo, che secondo me Nolan continua a non essere capace di girare. I tanti tasselli della storia si incastrano tra loro con equilibrio e la regia rimane magistrale in più punti. Però gli estimatori del regista di "Memento" trovaranno poco di quel montaggio, di quei temi, di quell'originalità e di quel coinvolgimento intellettuale dello spettatore che contraddistinsero i suoi lavori precedenti.
Personalmente spero che questo sia l'ultimo film della serie per lui. Dopo questa apprezzabilissima escursione nel blockbuster, spero di rivedere Nolan alle prese con un film più vicino al suo stile e il fatto che abbia girato "The Prestige" dopo il primo Batman promette bene.

L'ultima parte di questa recensione la lascio a Heath Ledger. Generalmente, quando un personaggio dello spettacolo muore, non rimango particolarmente dispiaciuto, almeno che non rappresenti per me un esempio o fosse stato un artista al quale ero particolarmente legato. La stessa cosa mi è capitata dopo la notizia della morte di Ledger. Fino a ieri sera. Dopo averlo visto sullo schermo dar vita a quello straordinario Joker che lascia senza parole, tanto è perfetto nei gesti, nei tick, nello sguardo, nella totale padronanza del personaggio, mi dispiace pensare che il cinema non potrà più godere di un attore che molto probabilmente sarebbe potuto diventare fra venti/trent'anni un mostro sacro al livello di De Niro, Brando, Pacino, Nicholson. Ritengo che Ledger, fino a "Il cavaliere oscuro" non avesse ancora dato prova del suo vero talento. Era ancora in crescita. E purtroppo non potremmo mai sapere fin dove sarebbe potuto arrivare.

lunedì 21 luglio 2008

"Cover Boy" di Carmine Amoroso


Le regole dei distributori italiani restano e forse resteranno a lungo ignote. Come dice lo stesso regista, o vieni finanziato da Rai e Mediaset o ti scordi di vedere il tuo film proiettato nelle sale. E quando, per miracolo, lo vedi finalmente sullo schermo di un paio di cinema, hai appena il tempo di sorridere che già te lo hanno tolto.

La rabbia, per chi i film li fà ma anche per chi i film li ama, è che nelle sale, i film che riusciamo a vedere, quelli finanziati da Rai e Mediaset, fanno per lo più cagare. Trame insulse, attori incapaci e registi che è meglio perdere che trovare. Certo non tutti, ma a ben guardare la qualità degli "altri", ovvero di quelle opere che non vedono la luce, c'è quasi da pensare che se il tuo film rimane nel cassetto o tutt'al più te lo ritrovi in qualche rassegna o festival, è quasi un complimento, vuol dire che è un ottimo lavoro.

E dopo aver visto, scaricato da Internet, "Cover Boy" quel pensiero trova nuove conferme. Perchè la seconda opera di Carmine Amoroso è un film bellissimo. Un film come se ne vedono pochi, capace di raccontare un tema attualissimo come il precariato e i drammi di una società basata sul profitto in modo equilibrato, senza sentimentalismi inutili, attraverso una storia di amicizia (amore), fatta di persone vere, che vedono la loro vita scorrere lenta lungo il filo di un rasoio, pronta da un momento all'altro a tagliarti per sempre o al contrario a portarti finalmente fuori dal tuo mondo.

E poi, finalmente, un film bello anche dal punto di vista estetico. Girato in 5 settimane, senza soldi, ma con grande talento, sia da parte del regista, che del direttore della fotografia, capace di dare corpo e sostanza agli ambienti, che sono l'emblema e sinonimo della vita dei protagonisti. I fredde e asettiche luci della stazione e del set fotografico, contrapposte al calore dell'appartamento di Michele, sguallido magari, ma sincero e amichevole quanto lui.

Un film ben recitato (anche in questo caso mi scappa un "finalmente") che strappa sorrisi e riflessioni, che con delicatezza colpisce con forza, attaccando la nostra società (e il nostro governo) meglio di altri film che nonostante la voce grossa, finiscono in un buco nell'acqua.

Da comprare assolutamente in DVD.

domenica 13 luglio 2008

"Funny Games" di Michael Haneke



Un film è realtà o finzione?

Il tema strutturato dalle due versioni di "Funny Games", quella austriaca del 1997 e quella U.S. del 2008, entrambe firmate da Michael Haneke, è proprio questo. Nel cinema (ma anche nei videogiochi, nella TV, ecc...) qual'è la linea di demarcazione tra realtà e fantasia? Un film apparentemente è finzione. Quelli sullo schermo sono solo attori, fingono di stupirsi, di amare, di arrabbiarsi, di morire.

Ma non è vero. Appena le immagini colpiscono lo schermo, rimbalzano e raggiungono i nostri occhi diventano realtà. Tutto quello che vediamo è vero. Quelli non sono più Naomi Watts, Tim Roth e via dicendo. Sono persone vere, marito e moglie e quello che i due ragazzi gli stanno facendo è pura realtà. Woody Allen, nel suo "La rosa purpurea del Cairo", porta il personaggio di un film a uscire fuori dallo schermo e raggiungere Mia Farrow, seduta tra il pubblico. Diventa vero, perchè è vero. Anche se in bianco e nero, anche se vive sullo schermo è comunque reale. Ha una sua personalità, un suo carattere, un suo mondo. E' talmente vero quello che accade su uno schermo cinematografico, che il pubblico comincia a provare tensione, a scioccarsi quando il figlio viene brutalmente ucciso, a provare dolore sentendo le urla di George fuori campo e a domandarsi "Ma che cavolo sta succedendo?" quando Arno Frisch nel '97 e Michael Pitt oggi, riavvolgono il film riportando in vita Peter.

No, un momento allora. Questo nella realtà non si può fare, non si può riportare indietro la nostra vita con un telecomando. Quindi un film non è realtà, è finzione. Le cose che accadono in un film non accadono nella realtà. I personaggi non potrebbero parlare alla macchina da presa, perchè nella realtà filmica, una macchina da presa, in quel salotto, in realtà non c'è.

Però, se così fosse, perchè ogni volta che guardiamo un film (chiaramente se la pellicola è ben fatta) ci immedesimiamo nei protagonisti e facciamo il tifo per uno o per l'altro? Speriamo che il protagonista sposi la donna amata, o che riesca a mettere in salvo la sua famiglia da un mostro gigantesco o che finalmente raggiunga il sogno di diventare un campione di box.
Insomma, "Funny Games" ci porta continuamente a domandarci qual'è il divario, la sottile linea rossa tra vero e falso nel cinema. Portando noi stessi a partecipare a gioco. Paul più di una volta guarda verso di noi e ci invita a partecipare al gioco, a scegliere che cosa fare, chi uccidere. Un'altro passaggio tra realtà e finzione. La realtà filmica si rompe e il personaggio parla a noi, per poi tornare nel suo mondo reale.
Non a caso "Funny Games" si basa sui giochi. I protagonisti giocano con le loro vittime e il regista gioca con noi. Ci prende in giro, ci porta a credere una cosa poi ci smentisce. Ci trasforma in sadici desiderosi di vedere la nuova tortura dei ragazzi e subito dopo ci porta a gioire per la morte di Peter, salvo poi svelarci che è tutto finto, che sono i cattivi a vincere il gioco e i buoni a perdere.
Come qualcuno ha fatto notare, gli oggetti presenti nel film, fucile, coltello, mazza e pallina da golf, sembrano quasi gli elementi di una partita a Cluedo. Uccidere la moglie, con il fucile, nel salotto. O il cane, con la mazza da golf nel giardino.

E' di questo che vuole discutere Haneke con i suoi due film. Della violenza che ci circonda, nei film, nei videogiochi, in televisione, sui giornali. La gente ha bisogno di violenza, una violenza sempre più vicina a quella reale. E' una morbosa ricerca di sadismo.
E ci regala un film violento, realistico e nello stesso tempo falso e bugiardo.
Una finta realtà e una reale finzione.
Il fatto che Haneke abbia accettato di rifare il suo film del '97, sottolinea come ci sia desiderio di tornare a parlare, nella società di oggi, del tema della violenza, di ciò che è vero e di ciò che è finzione, del bisogno della gente di rallentare in autostrada quando c'è un incidente o di comprare i giornali per scoprire le ultime novità su un determinato omicidio. "Funny Games" sono film geniali, ben fatti e che dovrebbero far aprire agli appassionati di cinema, varie discussioni sui molti temi trattati al loro interno.

Chiudo con un dialogo emblematico del film (parafrasando):
"Perchè non la fate finita e ci uccidete subito?"
"Signora, e che ne sarebbe dello spettacolo?"

lunedì 9 giugno 2008

"Gomorra" di Matteo Garrone


La forza di un tema. E' questo che fa urlare a molti appassionati di cinema al capolavoro, una volta visto "Gomorra". Perchè al di là della qualità reale del film, oltre al regista, oltre ai personaggi (che mai come in questo caso bisognerebbe chiamare "esistenti"), al di là di tutto questo c'è la concezione che la storia parli di qualcosa di dannatamente reale e vero come la Camorra. E un film che tratta un tema reale e tangibile, violento e maledetto come la Camorra (o come la guerra, la shoah, ecc...) specialmente in maniera cruda e quasi documentaristica, per forza di cose verrà eletto dalle masse a film capolavoro.

L'importanza di un libro come "Gomorra" e dell'esistenza di un uomo come Roberto Saviano sfido chiunque a definire superflua. Ma questo è un blog di cinema e non sono qui per dare il mio personale (quanto inutile) giudizio su un libro, su un uomo o sulla Camorra. Sono qui per dire la mia sul film di Matteo Garrone al di là del tema trattato. E penso che in generale bisogna tenere conto della quallità artistica e tecnica di un'opera oltre che soggetto trattato, che da solo riuscirebbe a commuovere, scioccare, imbestialire chiunque.

Può sembrare da questa premessa che il film non mi sia piaciuto. Sbagliato. Il film mi è piaciuto e tanto. E indubbiamente merita il successo che sta avendo. Ma, personalmente, guardandolo da un punto di vista squisitamente cinematografico, non urlo di certo al capolavoro.

Perchè "Gomorra" finesce per essere, ne più ne meno di un film sulla malavita. Un film-verità su criminali senza scrupoli desiderosi di salire nella scala gerarchica camorristica e mantenere (o conquistare) il potere della propria zona. Sarà che il cinema si è ormai da tempo impossessato di dramma e violenza, di morte e sangue, facendoli diventare, per quanto reali, elementi da grande schermo. Fatto sta che omicidi a sangue freddo e cerimonie di iniziazione a suon di colpi di Beretta fanno parte di troppi film sulla criminalità organizzata (vera o di finzione) per innescare nello spettatore quello schock dovuto alla visione di fatti sconcertanti e reali. La mente corre subito a "City of God" film che sotto molti punti di vista si avvicina a "Gomorra". Anche lì il teatro della vicenda è un luogo ristretto, popolato da famiglie comuni e clan malavitosi che convivono tra loro tra traffici di droga e morti sulle strade. Anche lì la malavita scivola nelle vite di uomini, donne e bambini, costretti a scegliere da che parte stare e finendo per voler diventare poi come "quelli lì" quelli che contano e magari sperare anche di essere meglio di "quelli lì".

Quello che ho notato in "Gomorra" è soprattutto una serie di clichè, di elementi classici di questo genere di cinema. Dai ragazzi che credono di poter prendere in mano il potere, di essere superiori a quei capi che deridono e sfottono e che solo facendo di testa loro potranno arrivare e che chiaramente finiscono ammazzati. Dai ragazzini che cercano di imitare i grandi, vestendosi come loro e cominciando a lavorare per loro. O come la scena del matrimonio che avviene in contemporanea e a pochi passi dai traffici che "gli altri" abitanti del quartiere stanno compiendo al piano di sopra (il male e il bene che convivono insieme). E poi la camera a mano, l'assenza di montaggio, la musica intradiegetica, il dialetto tutti elementi di un certo cinema-verità che cercano di ricordarci che quello che stiamo vedendo è tutto vero.

Matteo Garrone non mi aveva entusiasmato in precedenza, ma devo ricredermi dopo "Gomorra". Garrone sa come muovere la macchina da presa e spesso e volentieri ci regala alcune sequenze splendide da vero cinema.

"Gomorra" sfrutta l'onda del successo del libro e del tema trattato che, come ho già detto, di per sè fa breccia nell'animo dello spettatore. La scelta degli episodi, a detta dello stesso Garrone, è avvenuto puramente per motivi cinematografici più che per i contenuti. Forse uscire da Scampia, mostrare i legami più stretti tra Camorra e Stato, tra Camorra e la vita quotidiana degli italiani avrebbe dato al film maggiore peso e importanza. Così, ho l'impressione che finisca per essere una poco originale opera sulla malavita, come se ne sono viste tante.

domenica 1 giugno 2008

"Il divo" di Paolo Sorrentino


Paolo Sorrentino è un fautore dell'estetica cinematografica, uno che fa del suo stile, unico e originale, uno dei pilastri portanti delle sue opere. Un regista che sà usare la macchina da presa, sà come muoverla al servizio della su storia e dei suoi personaggi. Un autore che riesce a raccontare l'Italia e gli italiani, senza mai parlare direttamente dell'Italia e degli italiani.

Anche "Il divo", film che tratta la vita di Giulio Andreotti dal suo settimo mandato come Presidente del Consiglio fino all'inizio del processo di Palermo, è un film sul "teatrino della politica" come lo ha definito lo stesso Sorrentino, ma che in realtà non parla direttamente di politica.

"Se non puoi parlare bene di una persona: non parlarne" dice la citazione iniziale. E come è possibile parlar bene di un personaggio come Andreotti? Come raccontare la sua vita senza dare giudizi, senza cadere nella propaganda politica? Sorrentino ci riesce. E per farlo trasforma Andreotti in un personaggio cinematografico. Non nel senso che lo reinventa, cancellandogli i tratti distintivi reali, ma bensì estrapolandolo dal contesto politico-televisivo nel quale siamo abituati a vederlo, e sottolineando quei tratti distintivi, osservandolo con gli occhi di un narratore, di un regista.

Quello che penso affascini Sorrentino dell'attuale Senatore a vita non sia solo la sua storia politica e i misteri che ad essa sono legati, bensì Andreotti come personaggio di un film. L'aspetto fisico, la camminata, il modo di muoversi e parlare, la sua intelligenza e il senso dell'umorismo, così tagliente e raffinato, la totale assenza di espressioni ed esternazione dei sentimenti, il suo amore incondizionato per la moglie, il tutto unito a quelle 7 presidenze del Consiglio, i 22 incarichi da Ministro, i sospetti legami con la mafia e la partecipazione diretta, anche qui mai dimostrata, a numerosi omicidi negli anni '70 e '80 che contrasterebbero fortemente con la sua pacatezza e tranquillità esteriore. Tutti elementi che farebbero la fortuna di un personaggio di fantasia, se non fosse che quel personaggio esiste già ed è assolutamente reale.

Sorrentino inquadra Andreotti senza mai inoltrarsi nei meandri della politica, senza raccontare aspetti della sua vita pubblica che già non si conoscono, ma guardandolo come un personaggio grottesco, quasi buffo, che nella sua involontaria simpatia, mette i brividi. Certo, il film non propone una immagine positiva di Andreotti, non ne fa una vittima innocente della Giustizia, ma nello stesso tempo non lo accusa direttamente. Non lo vediamo mai ordinare un omicidio, e ad eccezione dell'incontro con Riina, non sono molti i suoi colloqui incriminanti. Questo non perchè Sorrentino ritenga Andreotti innocente o perchè abbia timore ad attaccarlo, ma perchè vuole che sia lo spettatore a giudicare e perchè vuole dare al Divo una impronta grottesca.

E' proprio il grottesco la chiave di lettura del film. Già dalle prime scene, che vedono il protagonista prima con il volto coperto di aghi nell'intento di cancellare l'emicrania che lo perseguita, e poi sulla cyclette mentre pedala nella penombra, o ancora la presentazione della "corrente andreottiana" con quella camminata verso la mdp in rallenty che ricorda quella delle iene terantiniane, si capisce la volontà del regista di "Le conseguenze dell'amore" di non realizzare la solita banale fiction su un un frammento di Storia d'Italia, ma creare puro Cinema trasformando un uomo politico in un personaggio. E' la consapevolezza che quel personaggio è reale a creare la morale dell'opera.

Il difetto del film, forse sta nella durata, quasi due ore. Questo perchè, l'intento di raccontare il "personaggio-Andreotti" comporta la mancanza di una storia vera e propria, di una trama con un obiettivo finale, con uno scopo da raggiungere per il protagonista. Questo va benissimo, ma inserito in 110 minuti di film, finisce per stancare un po' lo spettatore che, incantato dal talento di Sorrentino finisce per domandarsi quando si entrerà nel vivo della storia. Ma non c'è una storia, una trama, non c'è neanche un finale in effetti.
La trama del film è Andreotti.

Due parole per Toni Servillo che continua la sua collaborazione con il regista napoletano e che come sempre lascia il segno con una interpretazione superlativa, nascondendosi dietro il personaggio e recitando con il corpo, (attraverso gesti controllati e mimiche da attore comico) e con la voce (controllata e cadenzata ma capace di esplosioni staordinarie come nella scena della preghiera-confessione) in un modo sublime. Attualmente il migliore atore italiano e non solo.

lunedì 26 maggio 2008

"Spartan" di David Mamet...e David Mamet stesso


Esistono due aspetti del David Mamet cinematografico. Il Mamet-sceneggiatore e il Mamet-regista.
Il Mamet sceneggiatore è niente di più che un maestro. Autore di sceneggiature spesso capolavoro, incentrate su personaggi difficili da dimenticare e da dialoghi pungenti, originali e costruiti splendidamente.
Sue le sceneggiature di "Gli intoccabili", "Il postino suona sempre due volte", "Americani", "Edmond", "Il verdetto", "Ronin" e via dicendo.
Per ogni aspirante sceneggiatore è quasi indispensabile la lettura del suo "I tre usi del coltello" che raccoglie una sua lezione di sceneggiatura e regia tenuta alla Columbia University Film School. Una lezione che vale più di decine di manuali scritti sull'argomento.

Esiste poi il Mamet-regista che si occupa personalmente di portare sullo schermo i suoi lavori. Qui le cose cominciano a cigolare un po'. Suoi sono "Il caso Winslow", "La casa dei giochi", "Homicide", "Il colpo", "Spartan" e "Hollywood, Vermont" film a cui sono molto affezionato e che insieme ad "Americani" mi ha fatto amare la scrittura di Mamet. Ora, questi film chiaramente non hanno problemi di sceneggiatura. Trama, personaggi e dialoghi sono come sempre impeccabili (o quasi). Non vi sono neanche grossi problemi nella messa in scena: fotografia, movimenti di macchina, montaggio sono nella norma. Niente di eccezionale, ma funzionali al film. Il problema è legato al rapporto tra regista e spettatore. Nel modo in cui Mamet presenta i fatti, da un punto di vista strettamente visivo. Sembra quasi che in alcuni momenti abbia paura ad osare, a cercare maggiore originalità. Sembra quasi che gli manchi quell'ardire e quella meticolosità che lo contraddistingue come scrittore.

Prendiamo come esempio una scena di "Hollywood, Vermont", la gag della lavagna. Il regista Walt Price è stato invitato a cena dal sindaco della cittadina che ospita la troupe impegnata nelle riprese del film. L'appuntamento è fissato per Mercoledì sera. Walt segna l'appunto su una lavagna che è suddivisa in tante caselle, una per giorno della settimana. Una assistente però, cancella inavvertitamente tale appunto ed è costretta a riscriverlo. Lo scrive però nella casella sbagliata, quella del Giovedì facendo perdere così l'importante appuntamento a Price. Tale gag è costruita male. Se si fa attenzione, quando la ragazza riscrive l'appunto alla lavagna, non fa nessun errore. Lo scrive, infatti, nella stessa casella in cui effettivamente era prima. Alla fine del film, però, quando si arriva al giorno della cena, la macchina da presa si avvicina alla lavagna inquadrando in dettaglio la scritta che è ora nella casella sbagliata, come la gag in effetti prevedeva. Nella casella del Mercoledì si vede nitidamente la scritta originale leggermente cancellata. Gli errori quindi sono due. Il primo è che il secondo appunto viene effettivamente scritto nella casella del Mercoledì, ma poi lo ritroviamo in quella del Giovedì (errore della segretaria di edizione). Il secondo è: se il vecchio appunto è facilmente visibile (tanto che lo vediamo noi spettatori) come ha fatto la ragazza a non vederlo e a sbagliare giorno? Andare a inquadrare la casella del Mercoledì e mostrare una pallida scritta che non avrebbe senso (perchè una volta cancellata è cancellata del tutto), segna un errato modo di raccontare attraverso le immagini. Si poteva raccontare l'errore della ragazza in altri modi, più funzionali e verosimili di questo.

Scene come questa ricorrono spesso nei film di David Mamet. E "Spartan" non fa eccezione. I due buchi nella fotografia appesa alla bacheca che, secondo Curtis, dovrebbero giustificare il fatto che la foto è stata spostata, sono un esempio. E' lo stesso Curtis a spostare la foto senza bisogno di sfilare la puntina. O ancora, lo spaventapasseri seduto sulla sedia a dondolo viene mostrato troppo spesso e lo spettatore comprende facilmente quale sarà la sua funzione. Vi è una leggerezza di inquadratura anche quando viene mostrata la ragazza che pedina Scott vestito da poliziotto. E' facile dedurre che non sia una ragazza qualunque che passeggia per i fatti suoi.

Splendida invece la sequenza della finta sparatoria al distributore di benzina, con il forte contrasto luce-buio, caos-silenzio tra l'esterno del locale e l'interno. Contrasto che ben rappresenta lo stato d'animo del protagonista, calmo e calcolatore dentro di sè, ma esplosivo fuori.

Nel complesso "Spartan" presenta i classici difetti del David Mamet regista, ovvero questa approssimazione registica in alcuni aspetti, che spesso determinano le chiavi di svolta della storia. Sembra quasi che non abbia grande fiducia nello spettatore e debba spiegargli bene quello che accade. Una errata considerazione dello spettatore che però non ha il Mamet-sceneggiatore, che come accade per "Spartan" è in grado di scrivere un action-movie non convenzionale, che risulta complesso al punto giusto, con un ritmo sostenuto e un equilibrio tra le parti molto ben costruito. Staremo a vedere se il prossimo film da lui scritto e diretto, "Redbelt" potrà segnare un cambiamento sostanziale nel modo di concepire la narrazione per immagini del Mamet-regista.

domenica 25 maggio 2008

"Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo" di Steven Spielberg


"Quante cose si perdono nell'attesa". L'ultima frase del film è lì quasi per dirci "guardate che cosa vi siete persi ad aspettare tutto questo tempo." Sono passati vent'anni dall'ultimo capitolo della saga di Indiana Jones e sembra che il tempo si sia fermato.
Si sapeva bene che questo ritorno dell'archeologo con frusta e cappello era una operazione nostalgia, creata non tanto per aggiungere nuovi elementi alla saga ma per rituffarsi nel passato.
L'operazione è più che riuscita.
Certo, all'inizio si rimane decisamente spiazzati da vedere il nostro eroe negli anni '50, in una ambientazione molto lontana da quella dei primi tre episodi, ma basta poco e ritroviamo il professor Jones nella sua aula dell'Università davanti a una schiera di studenti per la maggior parte donne. Quando poi, il professore, indossa il suo giubbotto di pelle e il cappello ecco che ci sembra di essere davanti a un vecchio amico che non vedevamo da tempo.
Se l'incognita più grande del film era proprio il protagonista, o meglio il suo interprete, Harrison Ford cancella in un attimo ogni dubbio sulla sua capacità di rutuffarsi nei panni di Indy. Anzi, sembra quasi che non aspettasse altro. Eccezion fatta per qualche ruga in più, infatti, i cazzotti sono quelli dei tempi d'oro, lo humor irresistibile è rimasto lo stesso, così come il sorriso sciupa femmine e il fisico fa invidia a tutti gli over cinquanta (e non solo).

Indiana Jones è ormai diventato un simbolo, quasi come l'immagine di Che Guevara sulle magliette. Un marchio che Spielberg esalta spesso in quelle sue tanto amate ombre (riflessi e ombre sono un elemento caratteristico dell'estetica filmica del regista di Cincinnati). E' un marchio, una sagoma impossibile da confondere, che è sinonimo di divertimento e avventura.
E questo si aspettava il pubblico. Due ore di divertimento, auto-citazioni ed evasione.
E al mondo sono pochissimi i registi in grado di far divertire il pubblico quanto Steven Spielberg. Quello che molti definiscono come il regista più completo al mondo, l'unico in grado di passare con disinvoltura, ed estremo talento, da "Schindler's List" a "La guerra dei mondi", da "Salvate il soldato Ryan" a "E.T.", da "Il colore viola" a "Jurassic Park", si sente dannatamente a suo agio a dirigere una giostra di inseguimenti, sparatorie, misteri e fughe rocambolesche come questo quarto episodio.

I rischi che si potevano correre erano gli stessi che ha corso George Lucas riprendendo in mano la saga di "Star Wars". Ovvero quella di non rispettare alcuni elementi tipici della serie, lasciandosi andare ad ardite invenzioni, esagerazioni inutili ed eccessivi giochi di computer grafica che stonano ed annullano l'atmosfera dei capitoli originali . Si ha l'impressione che Lucas abbia messo il suo zampino in qualche idea più di una volta, come Mutt che si dondola tra le liane o le formiche che si arrampicano una sull'altra per raggiungere Cate Blanchet. Ma nel complesso Spielberg non cade nella trappola (apparte nel finale) e resta abile nel dosare bene gli ingredienti mantenendo vivo e inalterato lo spirito di Indiana Jones. La scelta di utilizzare stuntman ed effetti speciali meccanici al posto della CGI per le scene d'azione dimostra la volontà di mantenere un filo visivo con la vecchia trilogia.

Quello che apparentemente stona è la virata fantascientifica del finale, anch'essa tanto cara al regista. Molti storceranno il naso, ma se ci si pensa bene, Indiana Jones non è mai stato esente da fantasticherie poco scientifiche. Nella trilogia entravano in gioco il misticismo e le credenze religiose, con la "potenza di Dio" che veniva sprigionata dall'arca in "Indiana Jones e l'arca perduta" e che polverizzava i nazisti. Oppure il Santo Graal de "L'Ultima Crociata" che curava istantaneamete la ferita di Indy e che veniva custodito da un cavaliere templare sopravvissuto nella grotta da secoli e secoli. O ancora le pietre che prendono fuoco in "Il tempio maledetto" o il sacerdote che estrae il cuore dal petto delle sue vittime sacrificali. E poi siamo in pieni anni '50, non da molto è avvenuto "l'incidente di Roswell" in cui gli ufologi presumono sia precipitata un'astronave aliena ed è verosimile pensare (come viene detto nel film) che Indiana fece parte dell'equipe che ha lavorato sui resti ritrovati nel deserto. Ed è presumibile pensare, che il magazzino in cui si svolge il prologo e nel quale sono custoditi i resti alieni (nonchè l'arca dell'alleanza che compare anche durante l'inseguimento) sia la famosa Area 51.
Quello che davvero è difficile accettare è l'astronave che compare alla fine del film. Personalmente, avrei trovato più corretto mantenere un alone mistico e leggendario sul tema degli alieni, giocando sulla vincente formula del "Tell, Don't Show" (formula inversa della regola d'oro del Cinema "Show, Dont' Tell") tipica dei veri film horror o di fantascienza, ovvero parlare di qualcosa, teorizzarne l'esistenza, il potere, la peicolosità, ma non mostrandolo mai realmente. Spielberg-Lucas sono invece caduti nella trappola del "più roba mettiamo, più al pubblico piacerà", cosa che in realtà non sempre è veritiara (Star Wars insegna).

Comunque nel complesso, "Il regno del teschio di cristallo" è un film divertente, che chiaramente non potrà assurgere a cult movie come i precedenti, ma d'altronde non era questo il suo obiettivo. Il suo scopo era quello di riportare nelle sale un personaggio tra i più amati nella storia del cinema per il puro gusto di divertire e già che ci siamo, di incassare qualche dollaro. I fan più accaniti si divideranno in due schieramenti come accade sempre in questi casi (Star Wars insegna). Ma lasciamoli discutere tra loro. Per noi, che Indiana Jones l'abbiamo amato, ma che non ci aspettavano nulla di più che un bel divertissement, siamo rimasti soddisfatti.

Per la cronaca, tra i prossimi progetti di Camaleonte-Spielberg ci sono un dramma sui tragici fatti del 1968 alla Convention Democratica di Chicago, una trasposizione del fumetto di TinTin degli anni '30, un film di fantascienza e la biografia di Abramo Lincoln.
Come lui non c'è nessuno.

giovedì 22 maggio 2008

"L'ora di punta" di Vincenzo Marra

pubblicato su "www.filmedvd.it"

Ci sono registi che credono che per dare spessore a un film, e soprattutto cercare di elevarlo da un punto di vista stilistico, sia sufficiente girare delle scene mute, fatte di lunghe pause, attese, sguardi persi nel vuoto.
Deve essere di questo avviso anche Vincenzo Marra, regista di questo "L'ora di punta". Un film che può essere facilmente definito didascalico.
La storia di Filippo, ex finanziere corrotto, che cerca di fare soldi grazie ai suoi agganci nella Guardia di Finanza è noioso e senza phatos. Come per "Mare Nero", anche qui non è la lentezza del ritmo l'aspetto negativo, il fatto è che in tutta questa lentezza, non succede nulla di significativo. Al protagonista non capita nulla, e per assistere al primo conflitto interriore che Filippo si ritrova a dover risolvere, ovvero quando Donati lo minaccia di spifferare alla GdF il suo passato corrotto, è già passata ben un'ora di pellicola e comunque, tale conflitto si risolve a breve senza conseguenze per il protagonista.
Filippo non è mai in pericolo, non è mai costretto a fare scelte, non è mai costretto a schiacciare qualcuno per raggiungere il suo scopo. Va avanti tra lunghe attese a fissare il nulla e strette di mano a bancari. Un appuntamento dietro l'altro e nel mezzo una ridicola storia d'amore, che definire tale è eccessivo.
Anche qui, dove si poteva creare un minimo di conflitto, trovandosi in mezzo a due donne, non succede niente di chè. Fanny Ardant è alle prese forse con il suo ruolo più inutile, dove si ritrova a dire qualche battuta all'inizio poi viene messa da parte, fingendo una passione per il protagonista che è abbastanza patetica.
Imbarazzante anche la recitazione di Michele Lastella, anch'essa didascalica, senza cambi di tono o di espressione. Tutte le battute pronunciate con lo stesso timbro di voce che qualche volta risulta perfino cantilenante. Per fortuna c'è Augusto Zucchi che risolleva un po' il film sul piano attoriale.

Un film che voleva essere un attacco a un modo sporco di fare carriera, puntando il dito anche verso la Guardia di Finanza, ma che invece non ha la forza neanche di uno schiaffo e alla fine lascia lo spettatore in poltrona, incantato come Filippo davanti alla finestra, a chiedersi se i registi/sceneggiatori italiani la finiranno prima o poi di ricercare inutilmente una falsa qualità stilistica e daranno finalmente più peso alle storie che scrivono e alla profondità dei loro personaggi.

domenica 18 maggio 2008

"The Aviator" di Martin Scorsese


Reduce dalla titanica fatica di “Gangs of New York”, film che Scorsese sentiva moltissimo, anche come omaggio a quella città da lui tanto cara e che da poco era stata marchiata indelebilmente dall’11 Settembre, il regista premio Oscar inizia a lavorare a un progetto anch’esso fortemente voluto. Ma non da lui, bensì da quello che ormai è diventato uno dei suoi attori feticcio, Leonardo di Caprio. The Aviator è la storia di Howard Hughes, produttore cinematografico, miliardario, playboy e, ovviamente aviatore.
È chiaro che raccontare la vita di un personaggio così leggendario e pieno di sfaccettature non è impresa semplice e generalmente quando il cinema hollywoodiano si intestardisce a provarci (ovvero molto spesso) il risultato non è mai entusiasmante.
Anche "The Aviator" rientra in questa statistica.
Nonostante Scorsese abbia già raccontato storie che si reggono su un'unica figura, come il Travis Bickle di "Taxi Drive" o il Jack LaMotta di "Toro Scatenato", e con risultati eccezionali, in questo caso è proprio la figura di Howard Hughes a non essere sufficientemente potente da reggere il film. Un personaggio assolutamente mal costruito di cui sappiamo poco o nulla. Si sorvola soprattutto, su due aspetti fondamentali della vitadi Hughes: i suoi soldi e la sua fobia.

Non sappiamo da dove provenga la montagna di soldi in suo possesso. Per tutto il film spende milioni e milioni di dollari senza battere ciglio. Fa costruire aereoplani mai visti prima e ri-girare interi film con soldi di cui non sappiamo la provenienza ne la quantità. Viene fatto accenno a una eredità, ma è un dettaglio un po’ misero, poco approfondito e alla fine finisce per risultare poco credibile questo sperpero di denaro illimitato.
Anche la fobia di Hughes per i germi, che sarà alla base della sua “pazzia”, non sappiamo minimamente da dove nasca. È un aspetto che viene lasciato all’immaginazione, supportato da quello splendido incipit che ci fa supporre un collegamento tra la fobia e la figura della madre morta, con la quale il protagonista era molto legato. Ma è troppo poco per disegnare un personaggio così mitico e interessante.

Nel complesso è tutta la sceneggiatura a non reggere. E' scarsa di ritmo e di identità. Non sa bene che cosa vuole essere, quali aspetti della vita del protagonista voglia mettere in risalto. Spazia qua e là tra cinema, aerei e belle donne, senza una struttura reale.
A sostenerla c'è solo la splendida fotografia di Robert Richardson e il solito impeccabile montaggio della Schoonmaker.
E' incredibile come Hollywood continui incessantemente sulla sua strada, realizzando filmoni da 11 Nomination agli Oscar, con cast di stelle, grandi effettoni speciali, un regista tra i migliori di sempre, ma che alla base manca di quell'elemento essenziale nella costruzione di un film, che è la sceneggiatura. Veramente, a pensarci bene, si sà che tale scelta non è poi così misteriosa. La gente, al cinema, non si interessa di personaggi, intrecci ed economia della narrazione, ma cerca principalmente i nomi, i volti, e le immagini fuori dal normale.
Ho l'impressione che Scorsese, qui si sia lasciato influenzare dai produttori e dal suo pupillo Di Caprio, per realizzare un film che forse, sotto sotto, non gli interessava più di tanto.

giovedì 15 maggio 2008

"Metropolis" di Fritz Lang


Divagazione sul cinema muto

Il cinema muto è il cinema dei dettagli. Dettagli che il sonoro ha cancellato lasciando il posto a dialoghi inutili e inutili effetti visivi.
Gesti, sguardi, elementi scenografici. La magia della narrazione per immagini di quel cinema è ormai scomparsa. Si dice che il cinema moderno ha portato il pubblico ad interagire con la storia, a cercare di sbrogliare la matassa, a non restare passivo sulla poltrona. In parte è vero, ma ciò vale solo per alcuni film che costringono lo spettatore a prestare il massimo dell'attenzione e a metterci del suo per comprendere a pieno la storia. Per il resto, il cinema moderno ha portato lo spettatore ad enfatizzare il proprio stato di passività nella visione del film, servendogli film dalla trama semplice in cui tutto è mostrato e spiegato. Niente è lasciato all'analisi del pubblico. Quest'ultimo non deve sforzarsi di comprendere la psicologia di un personaggio o le motivazioni che lo spingono alle sue azioni. Tutto viene spiegato subito. Sono i personaggi stessi a dirlo, a servire su un vassoio la loro vita, psicologia e storia senza bisogno che quelle persone sedute in platea facciano nulla.
Freder che entrando di corsa nell'ufficio del padre, allunga una mano e ferma la porta che rischia di sbattere. Un gesto semplice, anche banale, ma che paradossalmente ci mostra la figura di Joh Fredersen, di chi sia e soprattutto di cosa sia agli occhi del figlio. Anche se Freder ha bisogno di lui, vuole avere delle risposte e per questo è corso da lui in tutta fretta, frena il suo impulso, accompagna il portone e aspetta. Sà che se la porta dovesse sbattere, disturberebbe il padre, il suo lavoro sarebbe interrotto e rischierebbe di farlo infuriare per nulla. Un figlio che ha ancora paura del potere del padre. Come viene spiegato tutto questo? Niente parole, solo una mano che ferma una porta.
Per non parlare poi della recitazione. Chiaramente eccessiva ai giorni nostri per via di quei movimenti enfatizzati ed esagerati, dovuti al passato teatrale degli attori, ma che sono lì a ricordarci come il corpo dell'attore possa narrare molto anche senza bisogno delle parole.

E ora il film

Che cosa porta "Metropolis" a piazzarsi stabilmente ai primi posti delle classifiche dei migliori film di tutti i tempi? Generalmente tale onore è dato a quelle opere capaci di staccarsi prepotentemente dal passato con uno stile nuovo e originale e che soprattutto regalano analisi sempre nuove ad ogni visione. Basti pensare a Quarto Potere o 2001 Odissea nello spazio. Film che segnano una tappa nuova nel modo di fare e concepire il cinema e che non hanno timore di subire il verdetto delle generazioni future. Questo è possibile grazie, oltre alla forza visiva del film ,ai contenuti. Il plurale non è casuale. I grandi film hanno sempre più temi da trattare, sono strutturati su più livelli, e ogni volta salta fuori qualcosa che ti era sfuggito alle precedenti visioni. Analisi, queste sì, che portano lo spettatore, anche a distanza di decenni ad interrogarsi sui personaggi e gli eventi e a cercare di decifrare i simboli e comprendere i messaggi dell'Autore.
"Metropolis" ha tutto questo. Oltre ad essere un film sul politicamente corretto rapporto di simbiosi tra borghesia e proletariato o sul rispetto reciproco, è un film che presenta molte atre chiavi di lettura. Ad esempio quella religiosa. La religione è fortemente presente per tutto il film a partire dalla città stessa, Metropolis, il cui palazzo centrale è guarda caso denominata Torre di Babele. John Fredersen, in questa ricerca metropolitana di puntare al cielo nella costruzione degli edifici è come se volesse raggiungere Dio, proprio come la biblica torre. Rotwang, l'inventore, si sostituisce a Dio costruendo un robot a immagine e somiglianza umana. La divisione verticale tra Metropolis e la città degli operai è chiaramente ispirata all'Inferno e al Paradiso, con le fiamme infernali e il dolore sotto e la luce e il benessere di sopra.
Non è un caso che la donna a cui Lang fa pronunciare i suo messaggi di pace e amore si chiami Maria e Freder, che si mostra come il mediatore, altro non è che il Messia, che infatti Maria definisce come "colui che porterà armonia tra la testa e le mani" cioè colui che porterà pace e armonia tra i popoli. E per finire la scena finale, la finale riunificazione tra le parti si svolge in una cattedrale.

Questa è solo una interpretazione (o sarebbe meglio dire "livello) che è possibile estrarre da "Metropolis". Un'altro tema è quello del doppio e della dualità. Oltre alla già citata differenza tra le due città, e quindi tra luce e ombra, alto e basso, c'è il rapporto tra Fredersen e suo figlio, uno desideroso di schiacciare gli operai, quasi un diavolo che li spedisce all'Inferno, l'altro determinato a unire le parti e come detto, metafora di Gesù.
Fredersen e Rotwang due uomini una sola donna da amare. Rotwang stesso che fa il doppio gioco verso il signore di Metropolis facendogli credere di essere dalla sua parte (ancora il doppio quindi). Freder che si sostituisce a 11811 diventando così un suo doppio. Le due Maria, quella vera e quella robotica.
"Metropolis" è quindi un film che ha sempre qualcosa da raccontare. Ricco di sfaccettature e analisi sull'uomo e la società.

Dal punto di vista tecnico poi, anche qui raggiunge il top. E' strano pensare come un film del genere sia stato realizzato appena 20 anni dopo la nascita del Cinematografo. Quando il Cinema cominciava a muovere i primi passi, Lang realizzò un opera di tale impatto visivo, con sequenze che non sfigurano neanche ai giorni nostri. Una storia complessa ma narrata con semplicità e chiarezza, il tutto costruito come un'opera lirica.
Un film che supera i decenni e insegna ancora oggi come si realizza il vero Cinema.