lunedì 26 maggio 2008

"Spartan" di David Mamet...e David Mamet stesso


Esistono due aspetti del David Mamet cinematografico. Il Mamet-sceneggiatore e il Mamet-regista.
Il Mamet sceneggiatore è niente di più che un maestro. Autore di sceneggiature spesso capolavoro, incentrate su personaggi difficili da dimenticare e da dialoghi pungenti, originali e costruiti splendidamente.
Sue le sceneggiature di "Gli intoccabili", "Il postino suona sempre due volte", "Americani", "Edmond", "Il verdetto", "Ronin" e via dicendo.
Per ogni aspirante sceneggiatore è quasi indispensabile la lettura del suo "I tre usi del coltello" che raccoglie una sua lezione di sceneggiatura e regia tenuta alla Columbia University Film School. Una lezione che vale più di decine di manuali scritti sull'argomento.

Esiste poi il Mamet-regista che si occupa personalmente di portare sullo schermo i suoi lavori. Qui le cose cominciano a cigolare un po'. Suoi sono "Il caso Winslow", "La casa dei giochi", "Homicide", "Il colpo", "Spartan" e "Hollywood, Vermont" film a cui sono molto affezionato e che insieme ad "Americani" mi ha fatto amare la scrittura di Mamet. Ora, questi film chiaramente non hanno problemi di sceneggiatura. Trama, personaggi e dialoghi sono come sempre impeccabili (o quasi). Non vi sono neanche grossi problemi nella messa in scena: fotografia, movimenti di macchina, montaggio sono nella norma. Niente di eccezionale, ma funzionali al film. Il problema è legato al rapporto tra regista e spettatore. Nel modo in cui Mamet presenta i fatti, da un punto di vista strettamente visivo. Sembra quasi che in alcuni momenti abbia paura ad osare, a cercare maggiore originalità. Sembra quasi che gli manchi quell'ardire e quella meticolosità che lo contraddistingue come scrittore.

Prendiamo come esempio una scena di "Hollywood, Vermont", la gag della lavagna. Il regista Walt Price è stato invitato a cena dal sindaco della cittadina che ospita la troupe impegnata nelle riprese del film. L'appuntamento è fissato per Mercoledì sera. Walt segna l'appunto su una lavagna che è suddivisa in tante caselle, una per giorno della settimana. Una assistente però, cancella inavvertitamente tale appunto ed è costretta a riscriverlo. Lo scrive però nella casella sbagliata, quella del Giovedì facendo perdere così l'importante appuntamento a Price. Tale gag è costruita male. Se si fa attenzione, quando la ragazza riscrive l'appunto alla lavagna, non fa nessun errore. Lo scrive, infatti, nella stessa casella in cui effettivamente era prima. Alla fine del film, però, quando si arriva al giorno della cena, la macchina da presa si avvicina alla lavagna inquadrando in dettaglio la scritta che è ora nella casella sbagliata, come la gag in effetti prevedeva. Nella casella del Mercoledì si vede nitidamente la scritta originale leggermente cancellata. Gli errori quindi sono due. Il primo è che il secondo appunto viene effettivamente scritto nella casella del Mercoledì, ma poi lo ritroviamo in quella del Giovedì (errore della segretaria di edizione). Il secondo è: se il vecchio appunto è facilmente visibile (tanto che lo vediamo noi spettatori) come ha fatto la ragazza a non vederlo e a sbagliare giorno? Andare a inquadrare la casella del Mercoledì e mostrare una pallida scritta che non avrebbe senso (perchè una volta cancellata è cancellata del tutto), segna un errato modo di raccontare attraverso le immagini. Si poteva raccontare l'errore della ragazza in altri modi, più funzionali e verosimili di questo.

Scene come questa ricorrono spesso nei film di David Mamet. E "Spartan" non fa eccezione. I due buchi nella fotografia appesa alla bacheca che, secondo Curtis, dovrebbero giustificare il fatto che la foto è stata spostata, sono un esempio. E' lo stesso Curtis a spostare la foto senza bisogno di sfilare la puntina. O ancora, lo spaventapasseri seduto sulla sedia a dondolo viene mostrato troppo spesso e lo spettatore comprende facilmente quale sarà la sua funzione. Vi è una leggerezza di inquadratura anche quando viene mostrata la ragazza che pedina Scott vestito da poliziotto. E' facile dedurre che non sia una ragazza qualunque che passeggia per i fatti suoi.

Splendida invece la sequenza della finta sparatoria al distributore di benzina, con il forte contrasto luce-buio, caos-silenzio tra l'esterno del locale e l'interno. Contrasto che ben rappresenta lo stato d'animo del protagonista, calmo e calcolatore dentro di sè, ma esplosivo fuori.

Nel complesso "Spartan" presenta i classici difetti del David Mamet regista, ovvero questa approssimazione registica in alcuni aspetti, che spesso determinano le chiavi di svolta della storia. Sembra quasi che non abbia grande fiducia nello spettatore e debba spiegargli bene quello che accade. Una errata considerazione dello spettatore che però non ha il Mamet-sceneggiatore, che come accade per "Spartan" è in grado di scrivere un action-movie non convenzionale, che risulta complesso al punto giusto, con un ritmo sostenuto e un equilibrio tra le parti molto ben costruito. Staremo a vedere se il prossimo film da lui scritto e diretto, "Redbelt" potrà segnare un cambiamento sostanziale nel modo di concepire la narrazione per immagini del Mamet-regista.

domenica 25 maggio 2008

"Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo" di Steven Spielberg


"Quante cose si perdono nell'attesa". L'ultima frase del film è lì quasi per dirci "guardate che cosa vi siete persi ad aspettare tutto questo tempo." Sono passati vent'anni dall'ultimo capitolo della saga di Indiana Jones e sembra che il tempo si sia fermato.
Si sapeva bene che questo ritorno dell'archeologo con frusta e cappello era una operazione nostalgia, creata non tanto per aggiungere nuovi elementi alla saga ma per rituffarsi nel passato.
L'operazione è più che riuscita.
Certo, all'inizio si rimane decisamente spiazzati da vedere il nostro eroe negli anni '50, in una ambientazione molto lontana da quella dei primi tre episodi, ma basta poco e ritroviamo il professor Jones nella sua aula dell'Università davanti a una schiera di studenti per la maggior parte donne. Quando poi, il professore, indossa il suo giubbotto di pelle e il cappello ecco che ci sembra di essere davanti a un vecchio amico che non vedevamo da tempo.
Se l'incognita più grande del film era proprio il protagonista, o meglio il suo interprete, Harrison Ford cancella in un attimo ogni dubbio sulla sua capacità di rutuffarsi nei panni di Indy. Anzi, sembra quasi che non aspettasse altro. Eccezion fatta per qualche ruga in più, infatti, i cazzotti sono quelli dei tempi d'oro, lo humor irresistibile è rimasto lo stesso, così come il sorriso sciupa femmine e il fisico fa invidia a tutti gli over cinquanta (e non solo).

Indiana Jones è ormai diventato un simbolo, quasi come l'immagine di Che Guevara sulle magliette. Un marchio che Spielberg esalta spesso in quelle sue tanto amate ombre (riflessi e ombre sono un elemento caratteristico dell'estetica filmica del regista di Cincinnati). E' un marchio, una sagoma impossibile da confondere, che è sinonimo di divertimento e avventura.
E questo si aspettava il pubblico. Due ore di divertimento, auto-citazioni ed evasione.
E al mondo sono pochissimi i registi in grado di far divertire il pubblico quanto Steven Spielberg. Quello che molti definiscono come il regista più completo al mondo, l'unico in grado di passare con disinvoltura, ed estremo talento, da "Schindler's List" a "La guerra dei mondi", da "Salvate il soldato Ryan" a "E.T.", da "Il colore viola" a "Jurassic Park", si sente dannatamente a suo agio a dirigere una giostra di inseguimenti, sparatorie, misteri e fughe rocambolesche come questo quarto episodio.

I rischi che si potevano correre erano gli stessi che ha corso George Lucas riprendendo in mano la saga di "Star Wars". Ovvero quella di non rispettare alcuni elementi tipici della serie, lasciandosi andare ad ardite invenzioni, esagerazioni inutili ed eccessivi giochi di computer grafica che stonano ed annullano l'atmosfera dei capitoli originali . Si ha l'impressione che Lucas abbia messo il suo zampino in qualche idea più di una volta, come Mutt che si dondola tra le liane o le formiche che si arrampicano una sull'altra per raggiungere Cate Blanchet. Ma nel complesso Spielberg non cade nella trappola (apparte nel finale) e resta abile nel dosare bene gli ingredienti mantenendo vivo e inalterato lo spirito di Indiana Jones. La scelta di utilizzare stuntman ed effetti speciali meccanici al posto della CGI per le scene d'azione dimostra la volontà di mantenere un filo visivo con la vecchia trilogia.

Quello che apparentemente stona è la virata fantascientifica del finale, anch'essa tanto cara al regista. Molti storceranno il naso, ma se ci si pensa bene, Indiana Jones non è mai stato esente da fantasticherie poco scientifiche. Nella trilogia entravano in gioco il misticismo e le credenze religiose, con la "potenza di Dio" che veniva sprigionata dall'arca in "Indiana Jones e l'arca perduta" e che polverizzava i nazisti. Oppure il Santo Graal de "L'Ultima Crociata" che curava istantaneamete la ferita di Indy e che veniva custodito da un cavaliere templare sopravvissuto nella grotta da secoli e secoli. O ancora le pietre che prendono fuoco in "Il tempio maledetto" o il sacerdote che estrae il cuore dal petto delle sue vittime sacrificali. E poi siamo in pieni anni '50, non da molto è avvenuto "l'incidente di Roswell" in cui gli ufologi presumono sia precipitata un'astronave aliena ed è verosimile pensare (come viene detto nel film) che Indiana fece parte dell'equipe che ha lavorato sui resti ritrovati nel deserto. Ed è presumibile pensare, che il magazzino in cui si svolge il prologo e nel quale sono custoditi i resti alieni (nonchè l'arca dell'alleanza che compare anche durante l'inseguimento) sia la famosa Area 51.
Quello che davvero è difficile accettare è l'astronave che compare alla fine del film. Personalmente, avrei trovato più corretto mantenere un alone mistico e leggendario sul tema degli alieni, giocando sulla vincente formula del "Tell, Don't Show" (formula inversa della regola d'oro del Cinema "Show, Dont' Tell") tipica dei veri film horror o di fantascienza, ovvero parlare di qualcosa, teorizzarne l'esistenza, il potere, la peicolosità, ma non mostrandolo mai realmente. Spielberg-Lucas sono invece caduti nella trappola del "più roba mettiamo, più al pubblico piacerà", cosa che in realtà non sempre è veritiara (Star Wars insegna).

Comunque nel complesso, "Il regno del teschio di cristallo" è un film divertente, che chiaramente non potrà assurgere a cult movie come i precedenti, ma d'altronde non era questo il suo obiettivo. Il suo scopo era quello di riportare nelle sale un personaggio tra i più amati nella storia del cinema per il puro gusto di divertire e già che ci siamo, di incassare qualche dollaro. I fan più accaniti si divideranno in due schieramenti come accade sempre in questi casi (Star Wars insegna). Ma lasciamoli discutere tra loro. Per noi, che Indiana Jones l'abbiamo amato, ma che non ci aspettavano nulla di più che un bel divertissement, siamo rimasti soddisfatti.

Per la cronaca, tra i prossimi progetti di Camaleonte-Spielberg ci sono un dramma sui tragici fatti del 1968 alla Convention Democratica di Chicago, una trasposizione del fumetto di TinTin degli anni '30, un film di fantascienza e la biografia di Abramo Lincoln.
Come lui non c'è nessuno.

giovedì 22 maggio 2008

"L'ora di punta" di Vincenzo Marra

pubblicato su "www.filmedvd.it"

Ci sono registi che credono che per dare spessore a un film, e soprattutto cercare di elevarlo da un punto di vista stilistico, sia sufficiente girare delle scene mute, fatte di lunghe pause, attese, sguardi persi nel vuoto.
Deve essere di questo avviso anche Vincenzo Marra, regista di questo "L'ora di punta". Un film che può essere facilmente definito didascalico.
La storia di Filippo, ex finanziere corrotto, che cerca di fare soldi grazie ai suoi agganci nella Guardia di Finanza è noioso e senza phatos. Come per "Mare Nero", anche qui non è la lentezza del ritmo l'aspetto negativo, il fatto è che in tutta questa lentezza, non succede nulla di significativo. Al protagonista non capita nulla, e per assistere al primo conflitto interriore che Filippo si ritrova a dover risolvere, ovvero quando Donati lo minaccia di spifferare alla GdF il suo passato corrotto, è già passata ben un'ora di pellicola e comunque, tale conflitto si risolve a breve senza conseguenze per il protagonista.
Filippo non è mai in pericolo, non è mai costretto a fare scelte, non è mai costretto a schiacciare qualcuno per raggiungere il suo scopo. Va avanti tra lunghe attese a fissare il nulla e strette di mano a bancari. Un appuntamento dietro l'altro e nel mezzo una ridicola storia d'amore, che definire tale è eccessivo.
Anche qui, dove si poteva creare un minimo di conflitto, trovandosi in mezzo a due donne, non succede niente di chè. Fanny Ardant è alle prese forse con il suo ruolo più inutile, dove si ritrova a dire qualche battuta all'inizio poi viene messa da parte, fingendo una passione per il protagonista che è abbastanza patetica.
Imbarazzante anche la recitazione di Michele Lastella, anch'essa didascalica, senza cambi di tono o di espressione. Tutte le battute pronunciate con lo stesso timbro di voce che qualche volta risulta perfino cantilenante. Per fortuna c'è Augusto Zucchi che risolleva un po' il film sul piano attoriale.

Un film che voleva essere un attacco a un modo sporco di fare carriera, puntando il dito anche verso la Guardia di Finanza, ma che invece non ha la forza neanche di uno schiaffo e alla fine lascia lo spettatore in poltrona, incantato come Filippo davanti alla finestra, a chiedersi se i registi/sceneggiatori italiani la finiranno prima o poi di ricercare inutilmente una falsa qualità stilistica e daranno finalmente più peso alle storie che scrivono e alla profondità dei loro personaggi.

domenica 18 maggio 2008

"The Aviator" di Martin Scorsese


Reduce dalla titanica fatica di “Gangs of New York”, film che Scorsese sentiva moltissimo, anche come omaggio a quella città da lui tanto cara e che da poco era stata marchiata indelebilmente dall’11 Settembre, il regista premio Oscar inizia a lavorare a un progetto anch’esso fortemente voluto. Ma non da lui, bensì da quello che ormai è diventato uno dei suoi attori feticcio, Leonardo di Caprio. The Aviator è la storia di Howard Hughes, produttore cinematografico, miliardario, playboy e, ovviamente aviatore.
È chiaro che raccontare la vita di un personaggio così leggendario e pieno di sfaccettature non è impresa semplice e generalmente quando il cinema hollywoodiano si intestardisce a provarci (ovvero molto spesso) il risultato non è mai entusiasmante.
Anche "The Aviator" rientra in questa statistica.
Nonostante Scorsese abbia già raccontato storie che si reggono su un'unica figura, come il Travis Bickle di "Taxi Drive" o il Jack LaMotta di "Toro Scatenato", e con risultati eccezionali, in questo caso è proprio la figura di Howard Hughes a non essere sufficientemente potente da reggere il film. Un personaggio assolutamente mal costruito di cui sappiamo poco o nulla. Si sorvola soprattutto, su due aspetti fondamentali della vitadi Hughes: i suoi soldi e la sua fobia.

Non sappiamo da dove provenga la montagna di soldi in suo possesso. Per tutto il film spende milioni e milioni di dollari senza battere ciglio. Fa costruire aereoplani mai visti prima e ri-girare interi film con soldi di cui non sappiamo la provenienza ne la quantità. Viene fatto accenno a una eredità, ma è un dettaglio un po’ misero, poco approfondito e alla fine finisce per risultare poco credibile questo sperpero di denaro illimitato.
Anche la fobia di Hughes per i germi, che sarà alla base della sua “pazzia”, non sappiamo minimamente da dove nasca. È un aspetto che viene lasciato all’immaginazione, supportato da quello splendido incipit che ci fa supporre un collegamento tra la fobia e la figura della madre morta, con la quale il protagonista era molto legato. Ma è troppo poco per disegnare un personaggio così mitico e interessante.

Nel complesso è tutta la sceneggiatura a non reggere. E' scarsa di ritmo e di identità. Non sa bene che cosa vuole essere, quali aspetti della vita del protagonista voglia mettere in risalto. Spazia qua e là tra cinema, aerei e belle donne, senza una struttura reale.
A sostenerla c'è solo la splendida fotografia di Robert Richardson e il solito impeccabile montaggio della Schoonmaker.
E' incredibile come Hollywood continui incessantemente sulla sua strada, realizzando filmoni da 11 Nomination agli Oscar, con cast di stelle, grandi effettoni speciali, un regista tra i migliori di sempre, ma che alla base manca di quell'elemento essenziale nella costruzione di un film, che è la sceneggiatura. Veramente, a pensarci bene, si sà che tale scelta non è poi così misteriosa. La gente, al cinema, non si interessa di personaggi, intrecci ed economia della narrazione, ma cerca principalmente i nomi, i volti, e le immagini fuori dal normale.
Ho l'impressione che Scorsese, qui si sia lasciato influenzare dai produttori e dal suo pupillo Di Caprio, per realizzare un film che forse, sotto sotto, non gli interessava più di tanto.

giovedì 15 maggio 2008

"Metropolis" di Fritz Lang


Divagazione sul cinema muto

Il cinema muto è il cinema dei dettagli. Dettagli che il sonoro ha cancellato lasciando il posto a dialoghi inutili e inutili effetti visivi.
Gesti, sguardi, elementi scenografici. La magia della narrazione per immagini di quel cinema è ormai scomparsa. Si dice che il cinema moderno ha portato il pubblico ad interagire con la storia, a cercare di sbrogliare la matassa, a non restare passivo sulla poltrona. In parte è vero, ma ciò vale solo per alcuni film che costringono lo spettatore a prestare il massimo dell'attenzione e a metterci del suo per comprendere a pieno la storia. Per il resto, il cinema moderno ha portato lo spettatore ad enfatizzare il proprio stato di passività nella visione del film, servendogli film dalla trama semplice in cui tutto è mostrato e spiegato. Niente è lasciato all'analisi del pubblico. Quest'ultimo non deve sforzarsi di comprendere la psicologia di un personaggio o le motivazioni che lo spingono alle sue azioni. Tutto viene spiegato subito. Sono i personaggi stessi a dirlo, a servire su un vassoio la loro vita, psicologia e storia senza bisogno che quelle persone sedute in platea facciano nulla.
Freder che entrando di corsa nell'ufficio del padre, allunga una mano e ferma la porta che rischia di sbattere. Un gesto semplice, anche banale, ma che paradossalmente ci mostra la figura di Joh Fredersen, di chi sia e soprattutto di cosa sia agli occhi del figlio. Anche se Freder ha bisogno di lui, vuole avere delle risposte e per questo è corso da lui in tutta fretta, frena il suo impulso, accompagna il portone e aspetta. Sà che se la porta dovesse sbattere, disturberebbe il padre, il suo lavoro sarebbe interrotto e rischierebbe di farlo infuriare per nulla. Un figlio che ha ancora paura del potere del padre. Come viene spiegato tutto questo? Niente parole, solo una mano che ferma una porta.
Per non parlare poi della recitazione. Chiaramente eccessiva ai giorni nostri per via di quei movimenti enfatizzati ed esagerati, dovuti al passato teatrale degli attori, ma che sono lì a ricordarci come il corpo dell'attore possa narrare molto anche senza bisogno delle parole.

E ora il film

Che cosa porta "Metropolis" a piazzarsi stabilmente ai primi posti delle classifiche dei migliori film di tutti i tempi? Generalmente tale onore è dato a quelle opere capaci di staccarsi prepotentemente dal passato con uno stile nuovo e originale e che soprattutto regalano analisi sempre nuove ad ogni visione. Basti pensare a Quarto Potere o 2001 Odissea nello spazio. Film che segnano una tappa nuova nel modo di fare e concepire il cinema e che non hanno timore di subire il verdetto delle generazioni future. Questo è possibile grazie, oltre alla forza visiva del film ,ai contenuti. Il plurale non è casuale. I grandi film hanno sempre più temi da trattare, sono strutturati su più livelli, e ogni volta salta fuori qualcosa che ti era sfuggito alle precedenti visioni. Analisi, queste sì, che portano lo spettatore, anche a distanza di decenni ad interrogarsi sui personaggi e gli eventi e a cercare di decifrare i simboli e comprendere i messaggi dell'Autore.
"Metropolis" ha tutto questo. Oltre ad essere un film sul politicamente corretto rapporto di simbiosi tra borghesia e proletariato o sul rispetto reciproco, è un film che presenta molte atre chiavi di lettura. Ad esempio quella religiosa. La religione è fortemente presente per tutto il film a partire dalla città stessa, Metropolis, il cui palazzo centrale è guarda caso denominata Torre di Babele. John Fredersen, in questa ricerca metropolitana di puntare al cielo nella costruzione degli edifici è come se volesse raggiungere Dio, proprio come la biblica torre. Rotwang, l'inventore, si sostituisce a Dio costruendo un robot a immagine e somiglianza umana. La divisione verticale tra Metropolis e la città degli operai è chiaramente ispirata all'Inferno e al Paradiso, con le fiamme infernali e il dolore sotto e la luce e il benessere di sopra.
Non è un caso che la donna a cui Lang fa pronunciare i suo messaggi di pace e amore si chiami Maria e Freder, che si mostra come il mediatore, altro non è che il Messia, che infatti Maria definisce come "colui che porterà armonia tra la testa e le mani" cioè colui che porterà pace e armonia tra i popoli. E per finire la scena finale, la finale riunificazione tra le parti si svolge in una cattedrale.

Questa è solo una interpretazione (o sarebbe meglio dire "livello) che è possibile estrarre da "Metropolis". Un'altro tema è quello del doppio e della dualità. Oltre alla già citata differenza tra le due città, e quindi tra luce e ombra, alto e basso, c'è il rapporto tra Fredersen e suo figlio, uno desideroso di schiacciare gli operai, quasi un diavolo che li spedisce all'Inferno, l'altro determinato a unire le parti e come detto, metafora di Gesù.
Fredersen e Rotwang due uomini una sola donna da amare. Rotwang stesso che fa il doppio gioco verso il signore di Metropolis facendogli credere di essere dalla sua parte (ancora il doppio quindi). Freder che si sostituisce a 11811 diventando così un suo doppio. Le due Maria, quella vera e quella robotica.
"Metropolis" è quindi un film che ha sempre qualcosa da raccontare. Ricco di sfaccettature e analisi sull'uomo e la società.

Dal punto di vista tecnico poi, anche qui raggiunge il top. E' strano pensare come un film del genere sia stato realizzato appena 20 anni dopo la nascita del Cinematografo. Quando il Cinema cominciava a muovere i primi passi, Lang realizzò un opera di tale impatto visivo, con sequenze che non sfigurano neanche ai giorni nostri. Una storia complessa ma narrata con semplicità e chiarezza, il tutto costruito come un'opera lirica.
Un film che supera i decenni e insegna ancora oggi come si realizza il vero Cinema.

lunedì 12 maggio 2008

"Fitzcarraldo" di Werner Herzog

pubblicato su "www.filmedvd.it"

"Fitzcarraldo" è un film di cuore e corpo, di sudore e anima.
Rumore di cavi tesi al limite della rottura accompagnati dalle soavi note di Caruso.
Fango e sogni.
C'è tutta la "fisicità" di Herzog, uno dei pochi registi in grado di dare potenza alle immagini convogliando la potenza dela natura nella sua macchina da presa. Non è la spettacolarizzazione della natura, ma è la natura che da spettacolo e in essa si muove l'uomo, furore di Dio come Aguirre o sognatore temerario come Fitzcarraldo.

L'uomo che si sente potente come un fiume in piena, come una giungla senza fine, ma che in più sente di avere in sè quel veicolo di emozioni e vita che è l'Arte. L'Arte da traghettare (è il caso di dire) in un luogo selvaggio in cui vive l'anima istintiva dell'uomo che deve ancora stringere la mano a quella poetica ed emozionale.

Fitzcarraldo vuole preparare l'incontro, vuole portare l'Opera tra le scimmie, Caruso tra gli Indios e per farlo è disposto a cercare l'impossibile. Trascinare la sua nave al di là della montagna. Portare il cuore oltre l'ostacolo. Fitzcarraldo è quella nave e il fiume che scorre dall'altra parte del monte è il suo sogno. E per raggiungere il suo sogno non c'è ostacolo che l'uomo non possa superare.

Per ribadire il concetto, Herzog diventa Fitz e la nave ce la porta davvero sulla montagna, perchè il suo cinema è sangue, sudore e umanità. E' cinema duro e crudo, non perchè violento, ma perchè sincero. Un cinema che racconta sinceramente, la crudezza della vita con gli occhi della poesia.
E "Fitzcarraldo", indubbiamente il suo film più famoso, è lì a ricordarci che i sogni possono essere raggiunti, ma che spesso per riuscirci dobbiamo unirci insieme, chiedere aiuto e farci guidare dalla forza ispiratrice di un'opera d'arte.

lunedì 5 maggio 2008

"I demoni di San Pietroburgo" di Giuliano Montaldo


L'arte non è uguale per tutti. Il significato che un'opera d'arte trasmette non è percepito nello stesso modo. E' l'animo e la sensibilità del singolo uomo a decifrare il messaggio che l'autore gli ha lanciato e a darne il proprio personale significato. Così le parole e la passione di Dostoevskij vengono interpretati in maniera diversa. Gusiev vi trova la spinta per abbandonare il gruppo rivoluzionario e smettere di uccidere. Aleksandra, invece al contrario, è spinta ancora di più a metter mano alle bombe.

Perchè? E' davvero colpa dell'arte, o è Dostoevskij che non è riuscito a far ordine nella sua testa e i suoi romanzi sono davvero ingannevoli "Sembrano scritti contro i rivoluzionari, ma in realtà sono più incendiari dei proclami terroristici." gli dice l'ispettore Pavlovic.
Forse la risposta è semplice. Ovvero, l'arte è prodotta dall'uomo e l'uomo è tutto fuorchè semplice. E aggiungerei anche....per questo esiste l'arte.
Il cinema è uguale. Un film può lanciare messaggi diversi e soprattutto può essere interpretato e giudicato in modi diversi, in base a chi è seduto davanti allo schermo.

Il nuovo film di Giuliano Montaldo, come tutti i bei film, ha molte facce. Vi sono film che anche raccontando molte cose, alla fin della fiera non raccontano nulla. Si riempiono di aspetti che o restano incompiuti o non hanno la forza necessaria per impossessarsi della pellicola. "I demoni di San Pietroburgo" è uno di quei film che invece di "non essere nulla" è "anche altro". Non è solo un film su Dostoevskij, è anche un film su Dostoevskij. Ma è anche un film ideologico, un film sul potere della parola e dell'arte ("diffondere l'arte è uno dei compiti principali dello Stato e dei suoi servitori" dice Pavlovic), un film contro il terrorismo e la violenza, un film sull'uomo.

Quello che non è, o meglio che vorrebbe essere ma non riesce a raggiungere lo scopo, non è un buon "thriller" (anche se forse non è il termine adatto). Sono due le strade prese dal film, due le trame su cui si muove Dostoevskij. Quella del Dostoevskij autore, che deve a tutti i costi terminare il suo romanzo entro 6 giorni altrimenti il suo editore si intasca tutto e quella del Dostoevskij filosofo, rivoluzionario, ex deportato in Siberia, che deve trovare i terroristi e fermare l'attentato al Gran Duca.
Se il primo plot è ben costruito e risalta positivamente il bel rapporto tra l'autore e la dattilografa/futura moglie Anna, il secondo plot, invece, anche se affascinante, non sviluppa molto l'aspetto investigativo, ma resta sempre su un piano ideologico-politico.

La regia di Montaldo è impeccabile, così come la fotografia assolutamente splendida. La sceneggiatura invece, se da un lato è chiara e disegna bene i personaggi, dall'altra è un po' troppo teatrale nella successione delle scene e un po' televisiva nei dialoghi. Facilmente dimenticabile la colonna sonora di Morricone, di certo una delle più brutte mai composte dal maestro. Difficilmente dimenticabile invece la recitazione che vede l'intero cast esprimersi ad ottimi livello, soprattutto lo straordinario Roberto Herlitzka che ipnotizza ogni volta che comincia a parlare.

Il ritorno di Montaldo alla regia, dopo una pausa (crisi, come la definisce lo stesso regista di "Sacco e Vanzetti") durata 19 anni, è un bel ritorno. E' vero che il film profuma di vecchio, ma non è un valido motivo per bocciarlo, visto soprattutto la qualità artistica e culturale dell'opera.