martedì 20 gennaio 2009

"L'ora del lupo" di Ingmar Bergman

pubblicato su www.filmedvd.it

Il cinema di Bergman è stato sempre pervaso di simbolismi. Anche nelle sue opere dalla narrazione più classica, spesso si nascondono metafore, simboli, illusioni nascoste. Basti pensare a "Sussurri e grida", "Il posto delle fragole", "La fontana della vergine", "Persona", "Il volto" e via dicendo.
"L'ora del lupo" è però probabilmente il suo film più criptico, quasi surrealista, non solo nella fotografia e nello stile che chiaramente si riaggancia all'espressionismo tedesco, ma proprio nell'approccio al racconto, alla narrazione, ai personaggi.
Johan è un pittore tormentato dai suoi incubi, che vive quasi due vite contemporaneamente, quella reale che lo vede marito di Alma, giovane donna che tenta disperatamente di avvicinarsi al marito, e quella inreale popolata di creature fantastiche che distruggono lentamente la sua mente e che lo costringono a fare i conti con i fantasmi del passato. Demoni e spettri che in realtà non vediamo mai nelle loro "reali" sembianze. Johan li descrive alla moglie, dopo averli disegnati, ma quando li incontriamo sembrano quasi usciti da un film di Bunuel, con la loro aria da borghesi schifosi e nauseanti, finti e diabolicamente penetranti.
Ed eccola qua la surrealità del film. La mente sconvolta di Johan, ovvero il castello all'interno del quale lui e la moglie vengono invitati a cena e i suoi incubi, i suoi demoni, ovvero gli abitanti del castello.
E' significativa la battuta finale pronunciata da Von Sydow: "Grazie a voi ho raggiunto il limite. Lo specchio si è spezzato ma cosa riflettono i frantumi?" Grazie a quegli incubi, Johan ha raggiunto la fine delle sue ossessioni, ne ha raggiunto l'apice, distruggendo se stesso, la sua vita, la sua mente. Ma qualcosa è rimasto tra i cocci dello specchio. Quei frammenti di ricordi, di amore, di pace che ogni tanto ritornano in superficie, ma per poco tempo, presto schiacciati dai tormenti inflitti dai suoi demoni.

"L'ora del lupo" è un film che di reale non ha nulla e a questo proposito sono interessanti i titoli di testa, che sopra ai consueti titori bianchi su sfondo nero, si sentono fuori campo le voci VERE del regista che prepara la scena di apertura con Liv Ullmann. Quasi come volesse ricordarci che quello a cui stiamo per assistere è un film, nient'altro che un film (qualcosa di analogo lo fece anche con la sua opera precedente "Persona"). Questo è un film insolito nella filmografia del regista svedese, un film autobiografico e decisamente tormentato, composto da prove attoriali splendide, da un ritmo lento e volutamente snervante, con i secondi che non passano mai, e da riprese a tratti sbalorditive.

La nota sul DVD recita "l'unico film horror di Ingmar Bergman". In realtà "L'ora del lupo" non è un film horror vero e proprio, ma se proprio volessimo catalogarlo potremmo definirlo più un noir. Non inteso come noir bogartiano, ma come viaggio nelle oscurità della mente umana. Un film a tratti difficle per la sua enigmaticità e follia, ma che è a tutti gli effetti capostipite di certo cinema moderno, quello di David Lynch su tutti.

"La bella scontrosa" di Jacques Rivette


L'Arte è verità.

giovedì 8 gennaio 2009

"L'ospite inatteso" di Thomas McCarthy



Ci sono volte dove ti passa la voglia di andare al cinema, come quando ti ritrovi in sala accanto a qualche idiota che non fa altro che parlare e ridere per tutto il film, come è capitato a me con "Come Dio comanda".
Altre volte invece, ringrazi te stesso di averlo fatto. Come quando in una piccola sala (grande quanto il mio salotto di casa, alla faccia dello schermo panoramico) ti accomodi sulla poltrona e ti godi un piccolo gioiello come questo "L'ospite inatteso". Un film piccolo, come budget, come distribuzione e ho puara anche come incassi, ma grande nella storia, nei sentimenti, nella delicatezza e nel ritmo (in tutti i sensi).

Io adoro i film inventrati su un incontro e un rapporto che nasce e finisce in breve tempo ma che lascia nel protagonista qualcosa di importante. Non quelle storie che sono "per sempre" fatte di amori o amicizie che durano in eterno. Ma due (o più) persone che si incrociano in un momento della loro vita e che poi si perdono dopo essersi scambiate un po' della loro vita. "Once" era un film di questi. Una storia di amicizia (o forse amore) che nasce e poi finisce, serenamente, ma che segna un momento importante nell'esistenza dei due protagonisti. Un ricordo da conservare, un insegnamento da custodire.

Ne "L'ospite inatteso" accade proprio questo. Due persone, molto diverse l'una dall'altra che per un caso fortuito si incontrano e la loro vita cambia. Walter è infelice della sua vita, del suo lavoro, della sua mancanza di emozioni. L'incontro con il musicista Tarek lo cambierà, anche dopo che i due si separeranno per sempre. Ma "L'ospite inatteso" è anche e soprattutto un film "sociale", una originale e garbata storia multietnica, sul rispetto e la convivenza, sulle malate leggi della nostra società che calpestano la vita delle persone. Leggi scritte dalla paura stessa, la paura del diverso. Walter attraverso la musica entra nella vita di queste persone e grazie a loro cambia il proprio punto di vista sul mondo, cambia se stesso, a ritmo di jumbe. Come la scena del parco, perfettamente orchestrata in fase di sceneggiatura, che unisce insieme sotto un unico ritmo, sotto un unico battito realtà diverse, legate insieme dalla voglia di suonare, di stare...insieme. Ma le stesse persone che si siedono ai tavoli dei locali jazz per ascoltare Tarek suonare sono le stesse che non lo vogliono per strada, che hanno paura di lui, in metropolitana, perchè diverso, perchè c'è paura anche di un tamburo chiuso in una custodia.

McCarthy realizza una storia leggera, ma emozionante allo stesso tempo, equilibrata e perfettamente scritta, dove la regia resta garbata, senza darsi delle "arie", mettendosi al servizio dello script e della recitazione degli attori.

mercoledì 7 gennaio 2009

"Non pensarci" di Gianni Zanasi



Qual'è il tema più abusato in assoluto dal cinema italiano? Esatto, la famiglia.
Si può ancora parlare di famiglia senza cadere nei soliti clichè e con un po' di originalità? Sì, è possibile. Come ci ha insegnato Gianni Zanasi con la sua divertente commedia.
"Non pensarci" comunque è un film che va oltre il tema della famiglia. Seguendo Stefano, (chitarrista punk che sta attraversando un momento di crisi, sia creativa che sentimentale) da Roma alla sua cittadina natale, noi buttiamo un occhio non solo alla famiglia, ma più in generale alle convenzioni che regolano la nostra società.
La commedia è perfetta per fare questo. Vedere Stefano (un sempre fantastico Valerio Mastandrea) osservare meravigliato le auto che non superano neanche per sbaglio il limite dei 50 orari fa veramente venir voglia di prendere l'auto e fare le sgommate nel parcheggio o dire ai tuoi genitori che la loro figlia e lesbica, così solo per scioccarli, per rompere un po' quel guscio di finta perfezione, di finta morale che ricopre la città. Sì perchè in realtà è tutto finto.
L'ipocrisia della nostra società, dove non si parla di divorzio, di tradimento, di regole infrante, di omosessualità, di famiglia non convenzionale, di lavoro non sicuro (vabbè di questo si parla anche se non si vorrebbe). E infatti, tua madre ha messo le corna a tuo padre, anzi a quello che tu credi essere tuo padre ma non lo è. L'azienda di famiglia, quel lavoro solido che tuo fratello porta a vanti fa invece acqua da tutte le parti. E tua sorella....vabbè lei non è lesbica, ma speravi che lo fosse. Alla fine Stefano, si rende conto che quella perfezione quasi snervante che pensava di ritrovare a casa, non esiste. A lui, che in paese chiedono se si è disintossicato (perchè partire per Roma sperando di fare musica, senza famiglia, senza una scrivania per loro è come drogarsi), forse la vita va quasi meglio che agli altri. alla faccia dl loro perbenismo del cazzo.
Insomma non pensarci, manda a fanculo tutto e buttati. E se poi ti va male...c'è sempre la famiglia ad aspettarti. :-)

martedì 6 gennaio 2009

"Meduse" di Etgar Keret & Shira Geffen


A volte servono gli scrittori per ricordarci quanto il cinema sia soprattutto narrazione per immagini. E paradossalmente sono proprio due scrittori, artigiani della parola, a raccontarci per immagini, con la chiave del surrealismo, la nostra incapacità a comunicare.
Etgar Keret e Shira Geffen, al loro debutto dietro la macchina da presa, intrecciano le storie di 3 donne ognuna delle quali incarna un differente aspetto (o faccia) dell'isolamento.

Una ex-cameriera infelice della propria vita, che cerca se stessa...attraverso se stessa, attraverso il legame con la sua infanzia, con i suoi ricordi, grazie all'incontro magico con una bambina (se stessa?) uscita dal mare (dalla vita, dal passato, dai ricordi, dal nostro inconscio).
Una badante filippina, incapace di comunicare, che cerca lavoro a Tel-Aviv, lontano da casa, lontano da quel figlio al quale non riesce a comprare il tanto desiderato giocattolo (guarda caso una nave, il mare che ritorna). La lontananza da casa, il legame con la propria terra e i propri affetti. Una distanza che appare impossibile da colmare, ma che presto si rivelerà possibile grazie al linguaggio dei sentimenti che rompe le barriere dialettiche.
E infine una neo sposa, costretta a letto da una gamba ingessata. L'unica che vive la solitudine anche in maniera fisica, impossibilitata a muoversi e che per questo, in gabbia nella sua camera d'albergo, affida i suoi pensieri alla carta, alla parola scritta. Lei il mare non riesce neanche a vederlo dalla finestra e così lo materializza nella sua poesia che si rivelerà poi perfetta lettera di addio per una suicida.

Le loro vite galleggiano in un mare immenso e sia che si sentano lontante dal mondo, dai loro cari o da loro stesse, queste tre donne cercano disperatamente di trovare un'ancora alla quale aggrapparsi per ridare un senso alla propria esistenza, per smetterla di sentirsi così in balia delle onde.
Siamo tutti meduse. Tutti noi ci lasciamo spingere dalla corrente, incapaci di governare il nostro moto nel mare e per questo finiamo con l'isolarci, con l'avere paura di ciò che ci circonda.

Un film piccolo, e come spesso accade universale, delicato e poetico. Allo stesso tempo realistico e surreale. Un film che come detto gioca grazie alle immagini e alle metafore per raccontarci una umanità forte e fragile in equal misura.
Un debutto sorprendente, vista anche l'origine artistica dei due registi, che da una nuova visione alle storie coralli, alle vicende che intrecciano più vite, più esistenze che finiscono per incontrarsi, sfiorarsi, scontrarsi tra loro. Questa volta le vite non si toccano mai e il filo rosso che li unisce è la solitudine. Un ottima sceneggiatura che equilibra bene il ritmo tra una storia e un'altra regalando personaggi che ci attirano, grazie anche a una buona dose di magia.

lunedì 5 gennaio 2009

"Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi


Basta! Non se ne può più di questi registi. Tutti alla ricerca del loro stile, desiderosi di lasciare il segno con qualcosa ad effetto. Effetto che spesso, anzi sempre, è sinonimo di noia. Film che non dicono nulla, fatti solo di lente inquadrature senza spirito, ostentando ancora la sbagliata convinzione che se faccio un film pieno di lentezza, inquadrature ardite, scenografie spoglie e luci soft, fatto un bel film d'autore.
Potrei ripescare pari pari il post su "Mare Nero" di Roberta Torre per commentare questo lavoro di Franchi, perchè i difetti dell'uno sono anche i difetti dell'altro.

Elio Germano, (che per sua ammissione per girare questo film ha particolarmente sofferto, sia psicologicamente che fiscamente) in difesa del film disse che in Italia è ora di dare spazio anche a film meno popolari, film più di nicchia, indirizzati non al vasto pubblico perchè più forte, più ricercati. Assolutamente condivisibile come affermazione, certo, se si include in queste caratteristiche anche quella di essere un bel film. Visto che "Nessuna qualità agli eroi" è veramente un pessimo film.
Noioso sempre senza motivo e soprattutto pretenzioso. Si cerca di scrivere e dirigere (e in questo caso anche montare) questi polpettoni dandogli un tocco autoriale, ma da chi, Autore, non lo è neanche lontanamente. Due che scopano tagliati per metà fuori dalla inquadratura. Ok, potrebbe avere un senso. Ce l'ha in questo film? No. Così come non ha senso la trama, o meglio il film poggia su una storia inutile, che non interessa a nessuno. E fino alla fine uno cerca di capire quando questa cominci a decollare, ma si va avanti fino alla fine solo tra noia, noia e un pizzico di noia.

E' singolare come durante la visione del film abbia provato la stessa sensazione provata con il film della Torre, ovvero quella di essere difronte a un film francese. In alcuni momenti (al di là chiaramente degli attori che in francese recitavano) si respirava un aria tipicamente d'oltralpe nel ritmo, negli ambienti, nella costruzione delle scene. Si tratta però solo di una brutta copia, di un tentativo di imitazione mal riuscito. Per favore chi non è capace la pianti di cercare di esplorare la psicologia umana, di analizzare l'anima nera e la sofferenza dell'individuo, prima che ad impazzire siano gli spettatori in sala.

Insomma alla fine, nessuna qualità al film.