domenica 27 gennaio 2008

"Into the wild" di Sean Penn


Christopher McCandless dalla scaletta del Virginian ci sarebbe sceso. Il Novecento di "La leggenda del pianista sull'oceano" sentiva che il mondo era troppo grande per lui. Troppo pieno di scelte, di emozioni, di paure. Una nave troppo grande per lui.

Per "Alexander supertramp" invece, il mondo è proprio la nave che fa per lui. Non fugge per cercare se stesso, lui sà bene chi è. E' "supertramp", lo è sempre stato, fin da piccolo come ricorda la sorella. E proprio per questo fugge, perchè quel se stesso, in quel mondo lì non riesce a starci. E' tutto troppo piccolo, stretto, oppressivo per lui. Tutto troppo inutile.

Sean Penn, in un epoca in cui siamo schiacciati dall'ipocrisia della società moderna, scrive, produce e dirige un film sulla libertà, sul ritorno agli istinti veri dell'uomo, sull'amicizia e sui rapporti umani veri e sinceri. Un film politico in un certo senso, ma che comunque non ci piace definire tale.

"Into the wild" è un film sui sentimenti di un ragazzo desideroso di cercare la bellezza che ormai da tempo ha abbandonato la sua vita quotidiana.

La regia di Penn è più sperimentale delle sue precedenti. Zoom, sfocature, split-screen (multipli in alcuni casi), testi extradiegetici, angolazioni ardite, cam-look, narrazione frammentaria. L'impressione è che Penn volesse raccontare la storia di Chris distaccando bene la finzione dalla realtà. L'uso continuo di elementi intrinsechi del linguaggio cinematografico porta lo spettatore, più e più volte, a rendersi conto che quello che sta vedendo è un film, è una ricostruzione.
Spesso, i film basati su vite realmente esistite, tendono a ricostruire il tutto nei minimi dettagli, sostituendosi a quella vita, diventandone una copia filmica. Penn non ha questa pretesa, ne questa faccia tosta. Ha troppa stima e rispetto per Chris per far si che il suo film si sostuisca alla vera vita. Per questo sperimenta, per questo chiede allo straordinario Emile Hirsch di guardare in camera un paio di volte. Questo evidenzia anche che "Into the wild" non è un film politico sulla fuga dalla società moderna, è un film su Christopher "Alexander supertramp" McCandless, su quello che lui, con il suo sogno, con la sua purezza, ha dato alle persone che lo hanno conosciuto. E' un film sui suoi sentimenti, sulla sua crescita interiore che grazie a Sean Penn diventa crescita interiore anche per il pubblico che questa storia resta ad ascoltarla. Penn non vuole farci immedesimare in Chris, come appunto farebbe un qualunque biopic, ma vuole farci immedesimare nei personaggi che Chris ha incontrato. Noi siamo quei personaggi e anche noi ci sentiamo attratti da quel trampoliere e dalla sua avventura.

Lode all'intero cast, capace di dar vita a personaggi che restano nella mente anche se presenti per poco tempo e con i quali condividiamo il dispiacere per dover abbandonare Chris al suo cammino.

Ottimo il lavoro del direttore della fotografia che fotografa alla perfezione i bellissimi paesaggi attraversati da Chris riuscendo a donarci un po' di quella bellezza da lui respirata.
Nota di merito alla splendida colonna sonora di Eddie Vedder.

Oltre alla sperimetazione forse un po' eccessiva in alcuni momenti, la regia di Penn pecca un po' nelle situazioni famigliari che mostrano come genitori e sorella vivano la scomparsa di Chris. Penn mantiene un tono narrativo, di racconto, lasciando alla voce over della sorella commentare le immagini mute. Una maggiore presenza di dialoghi in questi momenti avrebbe aiutato anche gli spettatori meno attenti a seguire il film. Qualche altro difetto c'è, come spesso accade nei film particolarmente sentiti di loro autori, che magari presi più dallo spirito della storia lasciano andare un po' troppo i propri sentimenti nel dirigere il film lasciando in secondo piano la ragione.
Ma conta poco in fondo, perchè "Into the wild" resta un film bellissimo, intenso e toccante.

sabato 26 gennaio 2008

"Scusa ma ti chiamo amore" di Federico Moccia


Il cinema è bello perchè è vario. Vi sono generi per tutti i gusti. Il cinema cambia a seconda delle nazioni, della cultura e della sensibilità dei popoli. Quindi ognuno può scegliere le opere che preferisce.

Tutto vero. Se ci fossero opere tra le quali scegliere.

Il cinema italiano negli ultimi anni ha praticamente un unico filone che lo rappresenta, quello dei film adolescenziali. Certo, ci sarebbero anche altri generi, altri film di ben altro spessore, ma purtroppo hanno poco spazio, poca visibilità. Passano in sordina, nessuno li nota e a simboleggiare il Cinema tricolore ci pensano altri.

Come Federico Moccia che ormai sembra, purtroppo, che non ce lo leviamo più dalle palle. "Scusa ma ti chiamo amore" è la sua trasposizione cinematografica del suo omonimo romanzo. Il romanzo non l'ho letto e quindi non lo giudico, ma se è uguale al film che per mia sfortuna sono stato costretto a guardare, sarebbe meglio lasciarlo sullo scaffale della libreria.

Cercare di commentare un film come questo, il cui unico obiettivo è quello di portare le giovani ragazzine in sala, è una impresa difficile, dato che non vi è molto da commentare. I dialoghi sono di una banalità sconcertante, zeppi di clichè del genere, così come le scene d'amore, melense e scontate. Raoul Bova e la debuttante Michela Quattrociocche recitano in maniera imbarazzante. Se la performance di lei non sorprende più di tanto, quella di Bova è sorprendentemente sotto ogni sua precedente interpretazone, tanto da far accapponare la pelle a sentirlo parlare. Chiaramente si è adeguato al clima che si respirava sul set e alle capacità della sua compagna di scena e di certo il suo personaggio non lo ha aiutato affatto. Quando Alex si accorge che gli è stata portata via la macchina se ne esce con un adolescenziale "Ma no, l'avevo lasciata quì, sotto l'arco...e adesso?" Verrebbe da dirgli..svegliati, hai 37 anni e ti disperi come un ragazzino?
Moccia non si dimostra molto abile a dirigere gli attori e le riprese spesso sono appiattite da un movimento insensato degli attori sulla scena.
I personaggi sono stereotipati, fotografano due generazioni anni luce dalla realtà. L'esempio appena fatto per il pesonaggio di Alex lo dimostra bene. Trentenni infantili e complessati alla Muccino e adolescenti usciti da uno spot della Tim. Stereotipata e favolistica anche l'idea di amore che Moccia ci propina tanto da farci pensare che i suoi libri li scriva attraverso i Baci Perugina.
Per concludere ci si mette anche una voce over ingombrante e insignificante nel suo utilizzo.

Vabè, insomma, in un blog di cinema parlare di Moccia sembra blasfemo, ma più che altro quello che mi pesa è proprio il fatto che questi film, insieme ai vari Boldi-De Sica (che ora si sono divisi proprio per poter compiere più danni di prima) Banfi o Pieraccioni, simboleggiano il nostro cinema e non permettono ai giovani di avere una vera cultura cinematografica.

giovedì 24 gennaio 2008

Il narratore fa la differenza

Un film è la fusione di due elementi: stile e contenuto. O, come diceva Seymour Chatman, di Discorso e Storia. Il primo riguarda la messa in scena, la forma, "l'espressione". Il “come” il racconto ci viene narrato, non solo da un punto di vista visivo (fotografia, movimenti di macchina) ma anche dal punto di vista narrativo (struttura narrativa, montaggio, dialoghi)
Il secondo elemento è il contenuto, ovvero la storia in sé, il soggetto, il tema trattato, gli eventi (le azioni) e gli esistenti (personaggi e ambiente).
Ma quale dei due elementi è più importante? O meglio, quale dei due elementi è indispensabile per la buona riuscita del film? Un film scarso nella forma, può essere nobilitato dagli intenti alti della storia che vuole raccontare? O al contrario, è possibile raccontare bene una storia piatta, banale e che sa di “già visto”?
Partendo dal presupposto che ovviamente sarebbe meglio, anzi necessario, che sia il “come” che il “cosa” abbiano un valore elevato, un film può essere un “buon film” anche solo prediligendo uno dei due elementi. Personalmente sono dell’idea che il “come” sia più importante del “cosa”. E che all'interno del "come", struttura narrativa, montaggio e dialoghi siano più importanti della fotografia o dei movimenti di macchina.

Per chiarire questa visione prendo ad esempio due registi, Brian De Palma e Quentin Tarantino.
L’ultimo film di De Palma, Redacted, fa discutere. Non solo per il tema trattato, ma per le scelte narrative e visive adottate dal regista americano. Il film parla di un gruppo di soldati americani in Iraq e dello stupro, da loro compiuto, nei confronti di una ragazzina irachena. Un tema forte non c’è dubbio. Soprattutto perché De Palma non punta il dito verso la guerra (non solo almeno), ne contro i potenti (Bush su tutti) come hanno fatto fino ad ora tutti i film post 11 settembre, ma direttamente verso l’esercito USA. Un ennesimo passo avanti dell’America pacifista nei confronti dell’America guerrafondaia.
Ma quello che farà discutere gli appassionati di cinema è il modo scelto dal regista per raccontare questa storia di spessore.
Lo fa attraverso una sorta di finto-documentario, montando insieme spezzoni di telegiornali, video amatoriali girati dai soldati e riprese realizzate con attori. Una finzione cinematografica che pesca dai telegiornali, dalla rete, dalla televisione. Il “cosa” che prende il sopravvento sul “come” e il risultato è lontano dall’essere considerato Cinema.
Perché un film non è solamente un mezzo per puntare il dito e raccontare fatti realmente accaduti. Per quello ci sono i documentari, i reportage e gli articoli di giornale. Un film ha delle sue regole, una sua grammatica, una sua forma. Se è negativo fare un film utilizzando le trame e le basi narrative della fiction televisiva, altrettanto negativamente andrebbe considerato un lavoro cinematografico che si basa sulle leggi di Internet. Certo, Haggis nel suo recente "In the valley of Elah" utilizza riprese realizzate con un videofonino per mostrarci le fasi di vita militare del soldato scomparso. Ma è un intrusione della comunicazione informatica nel cinema in equilibrio con il tessuto narrativo della storia e dei suoi personaggi. Costruire una intera pellicola basandosi su elementi extra-cinematografici fini a se stessi non è fare Cinema.
Pensare di lasciar perdere il vestito da far indossare alla pellicola, concentrandosi solo sulla tematica è inconcepibile, soprattutto perché il messaggio in questo modo non giunge dove desiderato, ovvero al cuore e alla mente dello spettatore. Usciti dal cinema si rimane senza niente, o meglio con delle riflessioni che sono le stesse che si avrebbero leggendo un libro o guardando un servizio alla televisione. Quello di De Palma finisce per essere un non-cinema. È come se per raccontare un thriller in un libro uno scrittore raccogliesse una serie di finti articoli, rapporti del tribunale, fotografie e alla fine chiamasse il tutto un romanzo. Non è un romanzo. Non è neanche letteratura. Così come il film di De Palma non è un film, ne tanto meno Cinema.
L’altro regista che ho tirato in ballo è Quentin Tarantino, perché spesso i suoi detrattori lo accusano di essere tanto fumo e poco arrosto. Di essere un autore bravissimo a creare immagini forti, esteticamente perfette, di grande impatto, ma che sotto sotto non raccontano nulla. Un bambino che si diverte a fare del bel cinema senza prestare attenzione a quello che vuole raccontare. Più attenzione al “come” che al “cosa” in questo caso.
È vero. Ma non è così negativo come si pensa. Le storie di Tarantino sono lontane dall’essere originali. Sono classici cliché del genere che di volta in volta il regista decide di trattare. Non hanno un messaggio, una morale, un qualcosa da dire al pubblico. Sono storie di puro intrattenimento. Sono storie di gangster, assassini, ladri, donne del boss, tradimenti, fughe con il malloppo, omicidi a sangue freddo. Ma è il modo in cui Tarantino racconta le sue storie che le rende nobili. È qui che si vede la differenza tra un grande narratore e uno qualunque. Ovvero la capacità di prendere storie comuni e già sentite e renderle nuove. Essere in grado di colpire lo spettatore e di tenerlo sulla poltrona a divertirsi, emozionarsi, schifarsi, impaurirsi, meravigliarsi e via dicendo. Così come un grande cantante è colui che sa emozionarti anche se mette in musica le Pagine Gialle, così un grande regista è colui che indipendentemente dal soggetto che ha in mano, prende i mezzi a sua disposizione e ti tira fuori un film che emoziona.

Il cinema è un mezzo per raccontare storie, è questa la sua funzione. E il compito del regista è quello di narrare nel modo migliore la storia, di esaltare la sceneggiatura. Perchè è il modo in cui gli avvenimenti vengono raccontati che emoziona il pubblico e, quando necessario, lo porta a riflettere. Il “compito” di noi spettatori è quindi quello di prestare particolare attenzione a come questi avvenimenti (che siano d’impegno o meno) ci vengono narrati, senza lasciarsi affascinare dal solo soggetto (e tanto meno dagli attori) come purtroppo finiscono per fare molti, giovani spettatori.

domenica 20 gennaio 2008

"American Gangster" di Ridley Scott


Il cinema ha raccontato spesso e volentieri le salite e le inevitabili cadute di importanti criminali, siano essi gangster o mafiosi. E con altrettanto entusiasmo ci ha mostrato l'altra faccia della medaglia, quella dei poliziotti che quelle rovinose cadute hanno contribuito a realizzare. "American Gangster" quindi, non racconterebbe nulla di nuovo ed inefetti qualche clichè del genere si può facilmente riscontrare nel film, a partire dalla locandina che ricorda quella di "Scarface" di De Palma. Il gangster spietato sul lavoro, ma amorevole con la famiglia. Il poliziotto onesto "stile Serpico" divorziato e che rischia di perdere il figlio per il troppo tempo che dedica al lavoro. Gli spirri corrotti, i criminali impellicciati, la donna del boss stanca del lavoro del marito. Insomma, il film di Scott non brilla certo per originalità, ma nonostante questo non è certo un brutto film. Anzi, nel complesso, analizzando ogni singolo elemento che compone la pellicola, il risultato è ottimo. Interpretazione eccellente di Washington e Crowe, ricostruzione perfetta della New York anni Settanta, sia nella scenografia che nei costumi, splendida la fotografia di Harris Savides che dona alla pellicola un'atmosfera fredda e polverosa, da strada, da "gangster-movie" appunto, per non parlare del montaggio ad opera del nostro Pietro Scalia, (uno dei migliori montatori in circolazione e vincitore di due premi Oscar che chiaramente lavora negli States). Ridley Scott riesce a tenere alta l'attenzione per tutti i 160 minuti del film, spettacolarizzando anche sequenze che rischiavano di rallentare notevolmente il ritmo narrativo della storia. Quello che non funziona e che impedisce al film di entrare nella storia e salire ad un livello da "Il padrino" come la locandina vorrebbe farci credere è la mancanza oltre che di originalità, di mito. "Il padrino", non solo raccontò la storia della mafia in un modo che nessuno aveva ancora trattato, ma riuscì, grazie alla sceneggiatura e alla regia di Coppola di elevare i personaggi e le loro vite a simboli mitici di quel mondo. "American Gangster" non solo non riesce ad innalzarsi ad un livello di "mitologia gangsteriana", ma non si distacca nemmeno da un piano quasi documentaristico della vicenda di Frank Lucas.
Un film comunque bello, che non stanca, che piacerà a pubblico e critica, ma che non lascia il segno come ci si poteva attendere.

"Io sono leggenda" di Francis Lawrence


Un po' Cast Away, un po' La guerra dei mondi versione Spielberg, un po' 28 giorni dopo, un po' tutta la miriade di filmografia sugli zombie esistente e, a guardare bene il volto degli uomini infetti, anche un po' La mummia versione Sommers. Insomma, più che il personaggio, ad essere leggendario è lo scopiazzamento fatto da Lawrence per mettere insieme questo suo ultimo film.
Nuova trasposizione del romanzo di Richard Matheson datato 1954, "Io sono leggenda" sulla carta appariva come un interessante variante del genere sci-fi/horror, ma alla fin fine si dimostra essere un film che non lascia nessun segno tangibile nè nel panorama delle pellicole di fantascienza, nè in quelle dell'orrore.
A non entusiasmare, (come d'altronde accade al 90% dei film mal riusciti), è la sceneggiatura che al termine dell'ora e quaranta di proiezione non ha raccontato molto, eccetto di un uomo costretto a salvare continuamente la pelle da un orda di ex-umani infetti e cannibali. Neville, il protagonista, riuscirà sempre ad avere la meglio grazie o ad una pistola infilata nella portiera dell'auto, o a un fucile nascosto in un vaso, o ad una fila di auto-bombe parcheggiate davanti casa, o ad una bomba a mano logicamente lasciata in un cassetto insieme alle siringhe sterilizzate o per finire grazie allo scivolo del carbone. Chiedere agli sceneggiatori Goldsman e Protosevich di sforzarsi un po' di più per trovare degli espedinenti quanto meno un po' più originali e variegati non sarebbe stato male. Questa successione incessante di deux ex machina rende tutto irreale e noioso. Basti vedere la scena in cui Neville viene salvato da Anna, una supersite appena giunta a New York. Qualcuno mi spiega come la ragazza sia riuscita, comparendo dal nulla, ad estrarre Neville dall'auto finita in acqua, in piena notte, portandosi dietro un bambino e riusciendo alla fine a portare il protagonista svenuto e immagino, alquanto pesante, a casa, senza farsi seguire, il tutto mentre un branco di zombi inferociti li sta attaccando? Va bene che questa è fantascienza ma porca miseria non significa che la storia và scritta senza un briciolo di realismo e razionalità. In uno speciale sul film, Lawrence racconta con orgoglio, l'attenzione e la meticolosità con la quale hanno selezionato il tipo di vegetazione che potrebbe crescere in una città abbandonata da anni o come la solitudine finisce per intaccare la mentalità di un essere umano. Tutte cose lodevoli ci mancherebbe, ma se avessero speso un po' di quella meticolosità per scrivere la sceneggiatura forse avrebbero speso meglio il loro tempo.
Inoltre, è demoralizzante vedere come la lezione di Hitchcock sulla differenza tra suspance e sorpresa non è stata imparata dai registi di oggi. Tale regola vale anche per i concetti di paura e spavento. "Io sono leggenda" non terrorizza, ne impaurisce, ma spaventa. Eccezion fatta per la scena del capannone buio nel quale il protagonista entra per recuperare il suo cane, tutto il resto del film è pieno di quelli che io chiamo "colpi di volume". Ovvero esplosioni improvvise di volume seguite dall'ingresso altrettanto improvviso di un'assassino da dietro la porta. In questo modo si vuole spaventare lo spettatore attraverso un'espediente vecchio e banale, che nulla ha a che fare con la tensione e la suspance e che dimostra la completa mancanza di idee e di talento da parte del regista. Sarebbe come fare un film comico pieno di personaggi che scivolano su bucce di banana per un'ora e mezza.

"Luci della città" di Charlie Chaplin


Per comprendere nel profondo il mondo che ci circonda bisogna guardarlo dall'interno. Esserci dentro, viverlo dal profondo. Solo così è possibile comprenderne le mille sfaccettature. Chaplin ha sempre cercato di fare questo attraverso il suo alter-ego Charlot, il "tramp", il vagabondo che con il suo sguardo disincantato e puro ci racconta l'ipocrisia della società moderna e l'amore che si può nascondere dietro ogni angolo di strada.
"Luci della città" è forse il film più bello di Chaplin. In questo film non solo c'è tutto della maschera-Charlot, ma c'è tutta la poesia e l'umorismo di un genio del cinema. C'è la sua meticolosità, la sua dolcezza, l'equilibrio unico tra comico e drammatico che solo Chaplin è riuscito a realizzare. E poi, c'è tutta la sua critica del mondo di oggi (1931/2008 non fa differenza).

Se "Tempi moderni" cominciava con quella splendida similitudine che paragonava gli operai che entrano in fabbrica a un grecce di pecore e proseguiva poi con Charlot intrappolato tra gli ingranaggi dei macchinari, metafora dell'operaio intrappolato tra gli ingranaggi di un sistema lavorativo che lo stritola, in "Luci della città" più che alle immagini, la forza del messaggio e della denuncia di Chaplin è affidata a due personaggi che simboleggiano quei due aspetti della Città, l'ipocrisia e l'amore verso le quali puntano le luci del film: il milionario e la fioraia. Il primo, elemento di spicco dell'alta società riesce ad essere generoso con il prossimo solo quando annulla la ragione e lascia affiorire i suoi veri istinti grazie agli effetti dell'alcol. Distribuisce soldi, auto e riparo a Charlot, il suo salvatore, per poi cacciarlo in mezzo alla strada una volta passatagli la sbornia. La dolce fioraia, invece, desiderosa di provare anche lei le gioie dell'innamoramento, incontra Charlot per caso, scambiandolo per un ricco miliardario. Lei è cieca e non certo perchè così è più commovente agli occhi dello spettatore, ma proprio perchè lei non vede il mondo con gli occhi della società, del progresso, del denaro, ma attraverso gli occhi del suo cuore, dei suoi sentimenti. E' una persona pura, proprio come il nostro Charlot e non a caso sarà proprio del tramp con la bombetta che si innamorerà. Figure isolate che trovano la felicità ai margini di quelle potenti, quanto ipocrite luci che illuminano la città.

Tante le scene esemplari. Dalla sequenza iniziale che vede Charlot addormentato sull'enorme monumento di "pace e prosperità" proprio nel momento della sua inaugurazione al pubblico (una volta scoperto verrà attaccato da poliziotti armati e cacciato come se fosse un...vagabondo, alla faccia della pace e della prosperità), al salvataggio del milionario, perfetto esempio di comicità slapstick. Dall'incontro di boxe al momento in cui la fioraria riconosce Charlot e comprende che è proprio lui, quel senza tetto dai vestiti stracciati, l'uomo generoso e altruista di cui si è innamorata. Una delle scene più commoventi che il Cinema ci abbia mai regalato. Opera di Charlie Chaplin, uno dei più grandi Autori che il Cinema ci abbia mai regalato.

lunedì 7 gennaio 2008

"La leggenda del pianista sull'oceano" di Giuseppe Tornatore




Il cinema racconta storie, storie che spesso parlando di vita. A volte lo fa in maniera diretta, in maniera cruda, altre volte la mette sul ridere. Ma ci sono volte che il cinema sembra raccontarci storie di vita, ma che in realtà sta parlando di se stesso.

Come fa Giuseppe Tornatore con il suo "La leggenda del pianista sull'oceano". Racconta la storia di Novecento, ma in realtà sta parlando di Cinema. Tutto il film è una metafora sull'arte del raccontare storie, non a caso quella di Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il pianista sull'oceano, è una leggenda, una vita che esiste solo se c'è qualcuno a raccontarla. "In fondo non sono mai esistito" dice Novecento all'amico Max Tooney. Ed è proprio Max che farà vivere questa storia raccontandola durante il corso del film a vari ascoltatori (e a noi in primis). Novecento, così come i personaggi di un film, non esiste per il mondo. Solo coloro che sono saliti sulla nave sanno della sua esistenza, nello stesso modo per cui solo coloro che entrano in sala sanno dell'esistenza di quei personaggi. Se nessuno ascolta la storia, se nessuno legge un romanzo, se nessuno guarda un film, quei personaggi restano soltanto parole su fogli di carta. E' "l'ascoltatore" che li rende vivi, esistenti realmente...esistenti (scusate il gioco di parole).

"Anche qui il mondo passava ma non più di 2000 persone per volta. E di desideri ce n'erano, ma non più di quelli che ci potevano stare su una nave, tra una prua e una poppa." Anche in un film c'è il mondo, c'è la vita, ci sono desideri, sogni, dolori, speranze, divertimenti....ma non più di quelli che possono starci in un film, dall'inizio alla fine. Perchè il film ha un fine, non è infinito. L'Autore è infinito e le vite e la magia che può creare in quelle due ore è infinita.

Il dolore per la morte di Danny Boodman, l'amore di Novecento per la ragazza, l'amicizia con Max, il dualismo con Jelly Roll Morton, la speranza dei viaggiatori diretti in America e la gioia negli occhi di chi l'America la vedeva per primo, la paura di una tampesta, la gelosia perchè qualcuno, nella TUA orchestra, attira più attenzione di te. Tutto questo è presente in "La leggenda del pianista sull'oceano". Tutte le emozioni e i sentimenti che possiamo vivere nella nostra vita sono presenti su quella nave, possono essere provate su quel transatlantico, proprio come accade con il Cinema.

Tutto questo il cinema lo racconta e vive ogni qual volta c'è qualcuno disposto a sedersi e ad ascoltare, così come Max Tooney ha potuto conoscere Novecento, la sua storia e il suo talento, solo salendo i gradini di quella nave.

Tecnicamente Tornatore realizza un film intenso, probabilmente il più complesso da realizzare della sua filmografia. E' abile nel mantenere la storia sempre interessante, spiazzando con abilità nei diversi piani temporali. La fotografia fa il suo dovere, "scrivendo con la luce" i diversi stati d'animo e soprattutto le diverse condizioni di vita dei viaggiatori. Le musiche di Ennio Morricone giocano chiaramente un ruolo fondamentale, visto anche la difficoltà del compositore premio Oscar di dover scrivere una musica "mai ascoltata prima". Tim Roth è perfetto e il suo volto da ragazzino ingenuo, ma capace di grande forza espressiva, si adatta benissimo al personaggio di Novecento, così come altrettanto bravo è Pruitt Taylor Vince. Qualche piccola pecca c'è, come un montaggio eccessivo nella scena del duello (che presenta anche degli effetti grafici troppo visibili) o i modellini che anticipano l'esplosione del Virginian. Ma sono inezie, dettagli di un film bellissimo, metafora di quella cosa meravigliosa che è il Cinema e l'arte di raccontare storie.


sabato 5 gennaio 2008

"Lussuria" di Ang Lee


Paolo Mereghetti ha scritto sul Corriere della Sera: "Ma il risultato, per chi non voglia solo ispirarsi a qualche inusitata posizione kamasutresca, anche qui convince poco: le 28 pagine del racconto di Eileen Chang a cui si ispira il film diventano 156 minuti, con lunghe sequenze ginnico-amatoriali"

Lietta Tornabuoni su La Stampa: "Un ricco polpettone [...] dotato di due uniche cose interessanti: il contesto politico-bellico e le scene di sesso.

Molti altri critici o semplici appassionati, hanno concentrato le loro recensioni sull'aspetto erotico dell'ultimo film di Ang Lee con un susseguirsi di vocaboli come kamasutra, sesso spinto, nudità, ecc...

E' chiaro che la visione di un film dal titolo "Lussuria", porti a puntare la propria attenzione a quelle scene quasi trascurando il resto. Ma mi innervosisce abbastanza vedere come molte persone siano prevenute su un film catalogandolo, ancora prima di vederlo, nella sezione "film sul sesso" oppure "film violento", ecc... Se un tale comportamento è prevedibile in un gruppo di ragazzini con poca cultura cinematografica, non dovrebbe esserlo in adulti teoricamente "esperti" di cinema e che invece si sono seduti in sala come se stessero vedendo un film porno (se avessero potuto portare avanti velocemente le scene di dialogo per arrivare a quelle di sesso lo avrebbero fatto senza problemi).

Ho voluto cominciare con questa premessa non tanto perchè "Lussuria" sia un capolavoro, ma perchè è comunque un film elegante e raffinato, molto ben recitato e che va ben oltre alle scene di sesso.
L'eleganza e la perfezione formale con cui Lee racconta la sua storia è impeccabile così come il gioco di sentimenti tra Mr.Yee e Wang Jiazhi fatto di sguardi e sussurri. La freddezza glaciale di lui, elaborata dopo anni di timori e crudeltà dovute al suo lavoro, viene lentamente intaccata dalla donna e Lee lo sottolinea proprio attraverso quelle scene di sesso che passano dal quasi stupro iniziale ripreso in totale a quei splendidi quadri plastici di corpi intervallati da primi piani che avvicinano lo spettatore sempre di più ai protagonisti con il crescere della loro passione.

Guardando "Lussuria" il primo film che salta alla mente è "Notorious" di Hitchcock . Anche lì una donna deve corteggiare l'acerrimo nemico, ma nel film di Ang Lee entra in scena un aspetto che sicuramente sarebbe piaciuto molto al maestro del brivido, ovvero quella sorta di sadismo e di pseudo-necrofilia che costringe Wang Jiazhi ad andare a letto con un dead man walking, un uomo morto che cammina.

Altra sequenza splendida è quella che potremmo definire della "perdita della verginità". Non solo quella sessuale della protagonista, ma anche quella perduta dai suoi compagni, che in un vero e proprio "battesimo di sangue" vengono sverginati all'omicidio affondando a turno il coltello nel corpo di un collaborazionista. La strada verso il loro destino è ormai segnata.

"Lussuria" di certo non è carente di difetti. Il finale è piuttosto prevedibile e il film mantiene sempre lo stesso livello emozionale non decollando mai del tutto. Come con "Brockback Mountain" anche qui Lee dilunga un po' troppo la storia, anche se non ci sono molte scene inutili. Ma rispetto al suo predecessore qui equilibria meglio la narrazione passando con abilità dallo sfondo politico, agli ideali patriottici dei ribelli, ai sentimenti tra i due protagoniti. Lo snodo interessante nella psicologia di Mr.Yee, ovvero la scelta se continuare a seguire i suoi ideali politici e giustizziare l'amata oppure se aprire definitivamente la sua corazza e lasciarsi andare ai sentimenti, si risolve nel modo migliore sia per il contesto storico-politico della vicenda sia per la fedeltà al personaggio.

Insomma come già detto "Lussuria" non è un capolavoro, ma sicuramente è un'opera molto più profonda e di qualità, che non merita certo di essere frettolosamente catalogata come un film con scene di sesso.

giovedì 3 gennaio 2008

"Eastern Promises" di David Cronenberg


"Eastern Promises" non è un brutto film, ma delude completamente le aspettative.
Perchè in sostanza non racconta nulla e non decolla mai veramente.
Sono tre le storie che compongono il tessuto narrativo del film. Gli omicidi legati alle voci diffamatorie contro Kirill; lo stupro della 14enne; Nikolai infiltrato nella famiglia mafiosa.
Tutte e tre le storie finiscono per risultare superficiali, quasi secondarie e nessuna viene approfondita a dovere. La prima avrebbe il compito di introdurci nelle "faccende famigliari" dell'organizzazione mafiosa, ma alla fine si riduce a un omicidio e ad una vendetta senza approfondire che cosa ci sia di vero in quelle voci, perchè siano state messe in giro, da chi o che rapporti ci siamo tra la famiglia e i clan rivali. Certo sono cose che si può intuire, ma tutto viene lasciato stare, risultando solo un pretesto per la splendida scena di lotta nel bagno turco.
Lo stupro avrebbe lo scopo di far precipitare Anna nel mondo violento e duro della mafia russa, un po' come accadeva a Kyle MacLachlan in "Velluto Blu". Anche lui indagava su qualcosa di losco e vi cadde dentro fino in fondo. Anna, invece, quel mondo lo sfiora appena, non ci finisce dentro praticamente mai. Il bene che lei rappresenta e l'amore per la bambina la spingono a capire ad approfondire, ma di quel mondo ne sente appena l'odore e alla fine la sua storia rimane incompleta e ha solo il pretesto di trovare una motivazione per poter arestare Semyon. Anche lo stupro vero e proprio rimane una storiella di fondo di cui Semyon sembra protagonista secondario.
La storia di Nikolai invece, (interpretato da un ottimo Mortensen) parte con una puzza di "già visto" che preoccupa. E' l'autista desideroso di far carriera, (ricorda il Gangster Paul Bettany di "Gangster n°1"), dà l'impressione di dover diventare il preferito dal "boss" a discapito del figlio, legittimo erede al trono, ma troppo istintivo e stupido per governare. Alla fine lo diventa, ma è tutta un'impressione. Appena scopriamo che in realtà è un infiltrato, ma soprattutto che non è affatto il pupillo di Semyon, il film finisce. Il RE viene spodestato nel silenzio con una facilità allarmante. Del principe possiamo intuirne la fine e di tutto il resto ne sentiamo appena l'odore.
"Eastern Promises" poteva essere uno splendido spaccato sulla mafia russa. Cronenberg ha la forza visiva necessaria per raccontarlo e avrebbe potuto farne un capolavoro con il potenziale che il film aveva. Peccato che si è trovato a raccontare una storia che praticamente non esiste, che non crea nè pathos, nè tensione, nè porta lo spettatore ad affezzionarsi alle sorti dei protagonisti (anche perchè non sono mai veramente in pericolo) con un finale dal buonismo assurdo.
Peccato.