sabato 29 dicembre 2007

"Paranoid Park" di Gus Van Sant

“Nessuno è mai pronto per Paranoid Park” dice Jared ad Alex, il protagonista del film. Alex, come skater, non è pronto per Paranoid Park, il più malfamato e affascinante parco per praticare skatebord della città. Ma soprattutto, Alex non è pronto come uomo a quello che Paranoid Park riserverà per lui.


“Paranoid Park” non è un thriller, anche se c’è di mezzo un omicidio. Non è neanche un film sul mondo delle tavole a rotelle, anche se il protagonista è un appassionato di skatebord. Paranoid Park è un film su una convivenza. Quella tra Alex e il suo segreto. Tra Alex e le sue paure, i suoi timori, le sue ossessioni.


Gus Van Sant firma un film splendido, intenso, girato magistralmente, costruito come un puzzle che lentamente si compone unendo insieme tutti i tasselli della storia. Una struttura narrativa come questa, fatta di continue analessi che ci portano avanti e indietro nel tempo, tenendoci nascoste informazioni sui personaggi e sugli eventi raccontati, è tipico del thriller. Proprio per la sua caratteristica di celare all’inizio per poi distillare le informazioni nel corso del film, si applica bene in una indagine, in una storia del mistero. Van Sant usa questa struttura per scopi diversi. Non per nasconderci l’identità dell’assassino o l’omicidio in sé, ma per scendere in profondità nella mente di Alex. Indagare le conseguenze prima di scoprire le cause.


“Paranoid Park” non è un thriller anche perché non c’è una ricerca del colpevole, ne un giudizio morale sulle azioni del protagonista. Alex è Alex, un ragazzo qualunque che decide di tenere per sé il suo segreto e raccontarlo solo alle pagine di un diario. Un diario che si dissolverà tra le fiamme di un falò dove oltre al suo segreto, scompare per sempre l’innocenza di quel ragazzo qualunque. Van Sant segue Alex per la quasi totalità del film. Lo segue come uno spettatore esterno, che guarda ma non giudica. Che ascolta ma non commenta. Lunghi piani sequenza e rallenty seguono Alex che cammina tra i corridoi della scuola dopo l’interrogatorio della polizia, che scrive seduto su una panchina, che si allena con lo skate, che fa sesso, sempre e comunque condividendo tutto questo con il suo segreto. Con il suo senso di colpa, che urla con forza dietro a un silenzio assordante.

Splendida la scelta del cast. Una carrellata di volti veri, autentici. Come autentico è lo spaccato generazionale registrato da Gus Van Sant. Consigliato a tutti quelli che credono che i giovani siano quelli fotografati da Moccia.

sabato 22 dicembre 2007

"Brokeback Mountain" di Ang Lee

La mancata vittoria del film di Ang Lee agli Oscar ha suscitato qualche polemica. Motivo: gli uomini dell’Academy non hanno voluto premiare una pellicola che narrasse di un amore gay. Ora, gli Academy Awards spesso e volentieri sono stati assegnati (o non assegnati) senza tenere molto conto della reale qualità artistica di un film. Spesso e volentieri le reali motivazioni dietro alla scelta dei vincitori sono perlopiù legate a questioni politiche.

In questo caso però, mi sento di dire che la scelta di non premiare “Brokeback Mountain” come Miglior Film è corretta. Il film è sicuramente di buon livello, ma presenta alcune lacune dal punto di vista narrativo che gli impediscono di essere un ottimo film.

Brokeback Mountain è la storia di un amore. L’amore tra due uomini costretti per lavoro a convivere per lungo tempo sulle montagne per sorvegliare una mandria di bestiame. Tutto ha inizio quando una sera i due cowboy, entrambi etero e fidanzati, si lasciano andare ad un intenso rapporto sessuale. Rapporto che ha tutte le sembianze di uno sfogo di istinti sessuali a lungo repressi. Consumato in fretta, selvaggiamente. Qualcosa però scatta tra i due protagonisti e l’amicizia si trasforma in amore. Amore che sembra essere nato dal nulla. Non si sa infatti che cosa attragga l’uno all’altro e anche se è chiaro che i due protagonisti provino un amore molto forte, purtroppo si finisce per pensare che più che una storia d’amore si sia di fronte a una storia di sesso. I due infatti torneranno a incontrarsi negli anni, ovviamente di nascosto dalle rispettive consorti, principalmente per fare l’amore. Inoltre la scena con i due che corrono felici sui pendii di Brokeback è degna di una romantica commediola adolescenziale.

È vero che in molti film l’amore tra i protagonisti nasce quasi dal nulla e soprattutto in brevissimo tempo, ma quelle sono commedie sentimentali, storie romantiche principalmente costruite sull’immagine di un amore tanto romantico e fatato, quanto irreale. Ma qui siamo alle prese con un film d’autore, che perlopiù tratta un argomento come l’amore gay che il cinema a stelle e strisce, spesso, è stato refrattario a raccontare. Lee forse ha avuto paura a spingersi in profondità nel cuore della storia d’amore, mantenendo il rapporto tra i protagonisti su un piano più fisico e superficiale (la patetica scena dei due che corrono felici sui pendii di Brokeback come se fossero in un film adolescenziale è lì a dimostrarlo). Peccato perché sarebbe stato molto interessante indagare di più sui sentimenti per cercare di capire che cosa Ennis trovi di unico in Jack che nessun’altra persona è in grado di dargli (e viceversa).

L’altro aspetto narrativo che lascia a desiderare è l’arco temporale in cui si svolge la vicenda. L’amore dura per decenni e i due protagonisti torneranno ad incontrarsi ancora e ancora. Scorrere del tempo che però è difficile da seguire. Non si sa mai quanto tempo sia passato da una scena all’altra o se effettivamente sia passato del tempo. E poi non bastano un paio di baffi per fare di Gyllenhaal, 25enne quando il film è stato girato, un maturo padre di famiglia (è già difficile vederlo padre di tre figli in “Zodiac”). E quando Ledger incontra la figlia alla fine del film, più che il padre sembra il fratello maggiore, se non addirittura il fidanzato. Ed è proprio la seconda parte del film a risultare lenta e piuttosto noiosa, con questo dilatarsi inutile degli eventi che non fanno mai decollare il film.

In ogni modo “Brokeback Mountain” è un buon film, intenso e importante perché finalmente rompe un tabù che ha resistito troppo a lungo ad Hollywood. Peccato per una certa incuranza nella stesura della sceneggiatura che rischia di portare lo spettatore a perdersi più nei bellissimi paesaggi splendidamente fotografati, che nella storia d’amore vera e propria.

lunedì 17 dicembre 2007

"Sicko" di Michael Moore


Che cosa hanno in comune Sicko, Flags of our fathers e Nella valle di Elah? Che cosa può accomunare un documentario sul sistema sanitario americano, un film bellico su una battaglia della Seconda Guerra Mondiale e un dramma contemporaneo? La risposta è che entrambi questi tre film mostrano la vera faccia degli Stati Uniti d’America (e in parte dell’intero Occidente).
L’ultimo film di Michael Moore racchiude in sé tutti i messaggi di protesta e denuncia presenti nelle opere di Clint Eastwood e Paul Haggis.
Guardando "Sicko", non può non tornare in mente quella bandiera USA issata capovolta da Tommy Lee Jones al termine di “In the valley of Elah”. Una immagine che più di mille parole sintetizza la situazione di contraddizione in cui sono caduti da tempo gli Stati Uniti. Quella bandiera capovolta non è solo una richiesta di aiuto, ma è la dimostrazione che l’America non è quella nazione forte, altruista e saggia che ha sempre voluto far credere di essere. E Moore lo racconta bene parlando dei nuovi serial killer della società moderna, le Compagnie d’assicurazione e le case farmaceutiche, che nella loro cieca ricerca di denaro finiscono per uccidere migliaia di persone abbandonandole al loro destino, ma anche testimoniando come molti ospedali “scarichino” letteralmente sulle strade quei pazienti che non possono permettersi di pagare le salatissime cure mediche di cui hanno bisogno. Le caricano su un taxi e le lasciano ai bordi delle strade con ancora il camice ospedaliero addosso. “È questo che siamo diventati?” si chiede Moore. Che razza di America è questa che non aiuta chi ne ha bisogno?

Che non aiuta neanche coloro che hanno rischiato la vita per la propria nazione e per salvare i propri connazionali. Coloro che per lunghi mesi sono stati osannati come eroi e che, ora che i fumi che si alzavano dalle ceneri di Ground Zero si sono ritirati, diventano gente comune, e come tali immeritevoli di un aiuto se non sono in grado di pagare. La seconda parte del film infatti è dedicata ai vigili del fuoco e ai paramedici che proprio a causa di quei fumi e di quelle polveri respirate durante le operazioni di recupero tra le macerie delle Twin Towers si sono ammalati e soffrono di vari disturbi, per lo più respiratori. Nella parte del film probabilmente più forte per gli americani, Moore mostra davvero chi è il “nemico”. Carica su un motoscafo una manciata di questi “ex-eroi” e li porta a Cuba, nella “diabolica” Cuba comunista, l’isola del nemico giurato Fidel Castro. Ma è lì (e non in USA) che i nostri vengono ricoverati in un ospedale locale e curati, ovviamente gratis. È lì (e non in USA) che il paramedico con i polmoni ormai danneggiati può acquistare un inalatore a solo 5 cent. contro i 120 dollari che è costretta a spendere a casa sua. Sono i cubani a salvare la vita agli eroi americani. E sono i vigili del fuoco cubani a mettersi in fila e applaudire i loro colleghi a stelle e strisce. Quegli eroi che in patria sono stati abbandonati. Anche loro.

Così come è accaduto agli eroi di “Flags of our fathers”, i ragazzi della fotografia scattata sul monte Suribachi, osannati dai Signori della guerra e portati in trionfo in giro per gli Stati come galline dalle uova d’oro, non perché ragazzi qualunque mandati a morire e uccidere per una bandiera ma perché protagonisti di uno scatto fotografico che può ridare entusiasmo al popolo americano e convincerlo a pagare le tasse necessarie a finanziare la guerra. Di tutti gli altri soldati morti a Iwo Jima chi se ne frega. Tre ragazzi chiamati eroi, idoli di una intera nazione, che una volta finita la guerra vengono abbandonati al loro destino, dimenticati, lasciati da parte. Come gli uomini e le donne dell’undici Settembre.

Sicko racchiude quindi la morale dei due film scritti da Haggis e più in generale la visione che il cinema americano sta proponendo in questi ultimi anni degli Stati Uniti d’America, nazione sempre più allo sbando e sempre meno esempio da seguire.
Moore colpisce ancora una volta nel segno realizzando quello che probabilmente è il suo film più sentimentale e agghiacciante nello stesso tempo. Con il solito dissacrante umorismo e il montaggio che alterna le immagini documentaristiche a materiale d’archivio, questa volta il regista di Flint abbandona l’attacco diretto ai potenti, come ci aveva abituato con "Bowling to Columbine” a “Fahrenheit 9/11” e dà voce diretta ai parenti delle vittime (e alle vittime stesse) di questi omicidi legalizzati gettando lo spettatore in un incubo che lo lascia con la bocca aperta.
Non prima di essersi chiesto anche lui, come il regista: “È questo che siamo diventati?”

domenica 9 dicembre 2007

"Il nascondiglio" di Pupi Avati

Le luci si spengono e sullo schermo cominciano a comparire i titoli di testa del film. In sottofondo un tappeto pungente di archi, un misto tra L'esorcista e Lo squalo. Il solito brano horror-style. Il presentimento che stiamo per vedere il solito film horror senza un briciolo di originalità è già nell'aria.
Al termine della proiezione il presentimento diventa certezza. A detta dello stesso Avati, questo film aveva il solo scopo di spaventare il pubblico. Missione fallita. Non solo il film non spaveta, ma ad essere sinceri è difficile anche definirlo un film dell'orrore. Per tutta la pellicola, la protagonista, dopo essersi resa conto che la maestosa e spettrale villa che ha affittato per trasormarla in un ristorante è stata teatro, cinquant'anni prima di un atroce pluri-omicidio e, soprattutto, che lei non è l'unica inquilina della dimora, inizia ad indagare per capire che cosa è accaduto realmente e che fine hanno fatto le due ragazze accusate dell'omicidio che sembrano essere sparite nel nulla. E per questo non fa altro che andare in giro a fare domande a destra e a manca agli abitanti della cittadina, fino a scoprire qualcosa (ovvero che le due ragazze non hanno in realtà mai abbandonato la villa e che vivono da anni nascoste nel condotto d'areazione) che il pubblico ha già capito dall'inizio del film. Anzi da prima ancora. Bastava infatti guardare il trailer per capire che "qualcuno" si nascondesse in casa e poi d'altronde da un film che s'intitola "Il nascondiglio" che puoi andare a pensare? O Avati ci ha presi per fessi o lui di horror non è capace di girarne.

Visto che ad eccezzione della voce spettrale dell'unica ex-ragazza sopravvissuta (ormai ha circa 70 anni) che in piena notte riempie le stanze della villa svegliando la povera Laura Morante e delle atmosfere gotiche (i saloni della villa sono perennemente immersi nella penombra), di horror in questo film non c'è una mazza.

La Morante è brava (e questo si sà) ma il doppiaggio che ha fatto a se stessa (in originale infatti recita in inglese) è freddo ed "estraneo" alla vicenda.

In conclusione Avati riprende lo stra-abusato tema della casa infestata inserendoci di originale il solo fatto che la casa in realtà non è infestata, visto che di fantasmi qui non vi è ombra e che invece la "presenza" che la abita è un essere umano in carne e ossa anche se ormai abituato a vivere come un topo strisciando tra le pareti. L'idea della donna che negli anni si è abituata a vivere nei condotti di areazione trascinandosi dietro il fagotto che racchiude il corpo putrefatto della vecchia amica è sicuramente vincente, ma doveva essere il punto di partenza della storia, non la risoluzione finale del mistero, anche perchè, ripeto, è un mistero che lo spettatore ha già risolto prima ancora che gli archi riempiano i titoli di testa.