lunedì 17 dicembre 2007

"Sicko" di Michael Moore


Che cosa hanno in comune Sicko, Flags of our fathers e Nella valle di Elah? Che cosa può accomunare un documentario sul sistema sanitario americano, un film bellico su una battaglia della Seconda Guerra Mondiale e un dramma contemporaneo? La risposta è che entrambi questi tre film mostrano la vera faccia degli Stati Uniti d’America (e in parte dell’intero Occidente).
L’ultimo film di Michael Moore racchiude in sé tutti i messaggi di protesta e denuncia presenti nelle opere di Clint Eastwood e Paul Haggis.
Guardando "Sicko", non può non tornare in mente quella bandiera USA issata capovolta da Tommy Lee Jones al termine di “In the valley of Elah”. Una immagine che più di mille parole sintetizza la situazione di contraddizione in cui sono caduti da tempo gli Stati Uniti. Quella bandiera capovolta non è solo una richiesta di aiuto, ma è la dimostrazione che l’America non è quella nazione forte, altruista e saggia che ha sempre voluto far credere di essere. E Moore lo racconta bene parlando dei nuovi serial killer della società moderna, le Compagnie d’assicurazione e le case farmaceutiche, che nella loro cieca ricerca di denaro finiscono per uccidere migliaia di persone abbandonandole al loro destino, ma anche testimoniando come molti ospedali “scarichino” letteralmente sulle strade quei pazienti che non possono permettersi di pagare le salatissime cure mediche di cui hanno bisogno. Le caricano su un taxi e le lasciano ai bordi delle strade con ancora il camice ospedaliero addosso. “È questo che siamo diventati?” si chiede Moore. Che razza di America è questa che non aiuta chi ne ha bisogno?

Che non aiuta neanche coloro che hanno rischiato la vita per la propria nazione e per salvare i propri connazionali. Coloro che per lunghi mesi sono stati osannati come eroi e che, ora che i fumi che si alzavano dalle ceneri di Ground Zero si sono ritirati, diventano gente comune, e come tali immeritevoli di un aiuto se non sono in grado di pagare. La seconda parte del film infatti è dedicata ai vigili del fuoco e ai paramedici che proprio a causa di quei fumi e di quelle polveri respirate durante le operazioni di recupero tra le macerie delle Twin Towers si sono ammalati e soffrono di vari disturbi, per lo più respiratori. Nella parte del film probabilmente più forte per gli americani, Moore mostra davvero chi è il “nemico”. Carica su un motoscafo una manciata di questi “ex-eroi” e li porta a Cuba, nella “diabolica” Cuba comunista, l’isola del nemico giurato Fidel Castro. Ma è lì (e non in USA) che i nostri vengono ricoverati in un ospedale locale e curati, ovviamente gratis. È lì (e non in USA) che il paramedico con i polmoni ormai danneggiati può acquistare un inalatore a solo 5 cent. contro i 120 dollari che è costretta a spendere a casa sua. Sono i cubani a salvare la vita agli eroi americani. E sono i vigili del fuoco cubani a mettersi in fila e applaudire i loro colleghi a stelle e strisce. Quegli eroi che in patria sono stati abbandonati. Anche loro.

Così come è accaduto agli eroi di “Flags of our fathers”, i ragazzi della fotografia scattata sul monte Suribachi, osannati dai Signori della guerra e portati in trionfo in giro per gli Stati come galline dalle uova d’oro, non perché ragazzi qualunque mandati a morire e uccidere per una bandiera ma perché protagonisti di uno scatto fotografico che può ridare entusiasmo al popolo americano e convincerlo a pagare le tasse necessarie a finanziare la guerra. Di tutti gli altri soldati morti a Iwo Jima chi se ne frega. Tre ragazzi chiamati eroi, idoli di una intera nazione, che una volta finita la guerra vengono abbandonati al loro destino, dimenticati, lasciati da parte. Come gli uomini e le donne dell’undici Settembre.

Sicko racchiude quindi la morale dei due film scritti da Haggis e più in generale la visione che il cinema americano sta proponendo in questi ultimi anni degli Stati Uniti d’America, nazione sempre più allo sbando e sempre meno esempio da seguire.
Moore colpisce ancora una volta nel segno realizzando quello che probabilmente è il suo film più sentimentale e agghiacciante nello stesso tempo. Con il solito dissacrante umorismo e il montaggio che alterna le immagini documentaristiche a materiale d’archivio, questa volta il regista di Flint abbandona l’attacco diretto ai potenti, come ci aveva abituato con "Bowling to Columbine” a “Fahrenheit 9/11” e dà voce diretta ai parenti delle vittime (e alle vittime stesse) di questi omicidi legalizzati gettando lo spettatore in un incubo che lo lascia con la bocca aperta.
Non prima di essersi chiesto anche lui, come il regista: “È questo che siamo diventati?”

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