giovedì 8 gennaio 2009

"L'ospite inatteso" di Thomas McCarthy



Ci sono volte dove ti passa la voglia di andare al cinema, come quando ti ritrovi in sala accanto a qualche idiota che non fa altro che parlare e ridere per tutto il film, come è capitato a me con "Come Dio comanda".
Altre volte invece, ringrazi te stesso di averlo fatto. Come quando in una piccola sala (grande quanto il mio salotto di casa, alla faccia dello schermo panoramico) ti accomodi sulla poltrona e ti godi un piccolo gioiello come questo "L'ospite inatteso". Un film piccolo, come budget, come distribuzione e ho puara anche come incassi, ma grande nella storia, nei sentimenti, nella delicatezza e nel ritmo (in tutti i sensi).

Io adoro i film inventrati su un incontro e un rapporto che nasce e finisce in breve tempo ma che lascia nel protagonista qualcosa di importante. Non quelle storie che sono "per sempre" fatte di amori o amicizie che durano in eterno. Ma due (o più) persone che si incrociano in un momento della loro vita e che poi si perdono dopo essersi scambiate un po' della loro vita. "Once" era un film di questi. Una storia di amicizia (o forse amore) che nasce e poi finisce, serenamente, ma che segna un momento importante nell'esistenza dei due protagonisti. Un ricordo da conservare, un insegnamento da custodire.

Ne "L'ospite inatteso" accade proprio questo. Due persone, molto diverse l'una dall'altra che per un caso fortuito si incontrano e la loro vita cambia. Walter è infelice della sua vita, del suo lavoro, della sua mancanza di emozioni. L'incontro con il musicista Tarek lo cambierà, anche dopo che i due si separeranno per sempre. Ma "L'ospite inatteso" è anche e soprattutto un film "sociale", una originale e garbata storia multietnica, sul rispetto e la convivenza, sulle malate leggi della nostra società che calpestano la vita delle persone. Leggi scritte dalla paura stessa, la paura del diverso. Walter attraverso la musica entra nella vita di queste persone e grazie a loro cambia il proprio punto di vista sul mondo, cambia se stesso, a ritmo di jumbe. Come la scena del parco, perfettamente orchestrata in fase di sceneggiatura, che unisce insieme sotto un unico ritmo, sotto un unico battito realtà diverse, legate insieme dalla voglia di suonare, di stare...insieme. Ma le stesse persone che si siedono ai tavoli dei locali jazz per ascoltare Tarek suonare sono le stesse che non lo vogliono per strada, che hanno paura di lui, in metropolitana, perchè diverso, perchè c'è paura anche di un tamburo chiuso in una custodia.

McCarthy realizza una storia leggera, ma emozionante allo stesso tempo, equilibrata e perfettamente scritta, dove la regia resta garbata, senza darsi delle "arie", mettendosi al servizio dello script e della recitazione degli attori.

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